martedì, aprile 10, 2007

quelli che l'avevano fatta grossa

La tesi di Cancellare le tracce, il libro di Pierluigi Battista (Rizzoli, 2007) è questa: gli intellettuali italiani hanno aderito massicciamente al fascismo (il che è vero) e la Resistenza è stata un fenomeno minoritario (vero anche questo). Per rifarsi una verginità dopo un ventennio di collaborazioni e compromissioni, la classe intellettuale e politica si è sentita in obbligo di demonizzare il fascismo ben oltre il dovuto. E qui dissento, perché non avverto alcuna necessità morale di porre dei limiti a questa supposta demonizzazione dei fascisti.
Ciò detto, Cancellare le tracce è un libro davvero interessante; necessario per l’apparato di note in cui vengono messi in luce, con i dovuti rimandi bibliografici, i cedimenti nei confronti del regime fascista, per esempio, dei Norberto Bobbio e dei Pietro Ingrao - due che ebbero almeno la decenza di vergognarsene, seppure con un certo ritardo. E una lettura interessante sono anche le opere giovanili di coloro, ben più numerosi, che nel dopoguerra rimossero accuratamente quegli anni dalla propria bibliografia. Prendiamo ad esempio i liquami che il giovane Luigi Firpo rovesciava nel 1938 sugli ebrei, di cui lo disgustava “il sogno vasto e ardito” di costituire “sulle rive mediterranee, sopra le rovine del tempio incendiato, uno Stato nuovo e potente”. O le invettive di Gabriele De Rosa, futuro decano degli storici cattolici, contro il sionismo, reo di voler costituire un “focolare ebraico” proprio nei luoghi in cui gli ebrei avevano crocefisso Gesù. De Rosa scrisse queste infamie nel 1939, mentre era in corso la persecuzione antisemita. Letture interessanti, dicevo, perché illuminano sull’atteggiamento degli intellettuali italiani verso il sionismo, e da sole spiegano quanto sia artificiosa la distinzione tra antisionismo ed antisemitismo.
Tra le caratteristiche di lungo periodo della classe intellettuale italiana che questo libro mette in luce c’è, oltre all’ostilità verso il sionismo –o, quando va bene, l’assoluta indifferenza nei confronti della cultura ebraica- anche una certa mentalità complottarda. De Rosa solo nel 2000 ammise di “averla fatta un po’ grossa”, beninteso prendendosela con l’anonimo che aveva “resuscitato il libercolo in occasione di un concorso universitario”, per fare le scarpe a lui, poverino. Fantasmi cospiratori che animano le pagine di Giorgio Bocca, quando lamenta di essere stato perseguitato da una certa “signora Ravenna del Centro di documentazione ebraico”; questa aveva riesumato suoi articoli giovanili in lode dei Protocolli dei Savi di Sion vendicandosi così di alcune corrispondenze ostili ad Israele. È indispensabile, che finalmente qualcuno (come fa Battista) scriva di quelli come Bocca:
non sembra pentito delle invettive contro gli ebrei scritte qualche decennio prima. Se la prende invece con gli ebrei che gliele rinfacciano. Come se fosse oltraggioso riaprire una pagina dolorosa del passato, non le parole dettate nel cuore della persecuzione antiebraica” (pag. 59)
Un vero peccato è che questo libro lo abbia scritto un giornalista e non uno storico. Perché qualcuno interno all’accademia avrebbe potuto discendere i rami degli alberi genealogici accademici e familiari, ricostruire parentele e insegnamenti. E seguire come e in che modo una certa idea degli ebrei e di Israele si è mantenuta e diffusa nella cultura italiana. Sarebbe infatti interessante scoprire se e quali dei personaggi citati abbiano fatto almeno un viaggio in Israele; sospetto che il comunista Ingrao o il cattolico De Rosa abbiano avuto le loro ragioni per non prendere mai un aereo per quella Sionne da loro esecrata in gioventù: nei loro cuori stava, come sappiamo, la Palestina. Sappiamo cosa andava a fare in Israele Giorgio Bocca - e quali corrispondenze scriveva. Ancora, sarebbe davvero interessante scoprire se e quali allievi e discendenti dei Firpo o dei De Rosa abbiano mai avuto legami con il mondo accademico israeliano.
Come risulta da documenti pubblicati solo nel 2002 (A. Capristo, L’espulsione degli ebrei dalle accademie italiane, Zamorani 2002) è assai cospicuo l’elenco degli intellettuali italiani che nel 1938 risposero solleciti alla richiesta di “arianizzazione” dell’accademia, segnalando i nomi dei loro colleghi ebrei da espellere e/o professando la propria devota arianità e/o appartenenza salvifica alla religione cattolica. E si vedono così le non belle prove giovanili di Luigi Einaudi, Ugo Ojetti, Roberto Longhi, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Nicola Abbagnano, Guido Manacorda, Natalino Sapegno, Galvano Della Volpe, Arturo Carlo Jemolo, Antonio Banfi.
Non manca proprio nessuna delle correnti politiche dell’epoca: cattolici, liberali (con la lodevole eccezione di Benedetto Croce) socialisti e, sissignori!, pure comunisti (dicevate, a proposito di moralità?). Tutti determinati a sfruttare le occasioni di avanzamento di cariera che la legislazione razziale offriva a loro, prima della guerra. E, dopo la guerra, tutti uniti dalla comune volontà di nascondere pagine non esattamente gloriose. Certo, Togliatti seppe accogliere nel Partito Comunista una intera generazione di trasfughi intellettuali, cresciuti negli anni del totalitarismo fascista. Ma non considerò mai un particolare demerito aver partecipato alla macchina propagandistica antisemita, essersi giovati di cattedre rimaste vuote perché occupate da ebrei.

la tomba di Giorgio Bassani

E quanto agli ebrei stessi, l’atmosfera all’indomani della catastrofe era quella descritta in alcuni racconti di Giorgio Bassani. Cattolici impegnati a difendere le posizioni conquistate grazie al regime, intellettuali comunisti che dichiaravano che “si stava esagerando con le provvigioni a favore degli ebrei”, economisti liberali che invitavano a fare tesoro dell’esperienza delle leggi razziste e non indulgere nel vizio israelita dell’aiuto reciproco.
Tenendo presente questa atmosfera si capiscono meglio vicende come quella di Tullio Terni, biologo fascista estromesso perché ebreo dall’Accademia dei Lincei, reintegrato dopo la guerra, poi epurato e poi espulso perché fascista. E morto suicida nel 1946. Altri, fascisti come il Terni, si ritrovarono negli stessi anni ripuliti dalle compromissioni fasciste. Battista spiega che l’epurazione del dopoguerra venne condotta all’insegna dell’arbitrio. Ora ci vorrebbe qualcuno che, partendo da questo libro utile e necessario, si chieda perché tra i favoriti da questo arbitrio non vi sia alcun ebreo, proprio negli anni in cui nasceva lo Stato di Israele.

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