martedì, gennaio 29, 2008

generazioni di attivisti

C'era da aspettarselo. E' bastata una sporadica citazione del blog di un "colono" per trovarmi la casella postale piena di insulti (ecco la mia risposta: sì, grazie altrettanto anche a voi) e richieste di spiegazioni. Questo qua ovviamente non è un blog accademico e chiedo scusa se non vi so fornire una bibliografia sul movimento dei "coloni", sul sionismo religioso o più in generale su rav Kook, che è comunque una delle più grandi figure del Novecento. Ha messo d'accordo due correnti di irriducibili nemici - sionisti e ortodossi- e ha posto le fondamenta per uno slancio utopistico che ha uguali solo nel comunismo e che è durato almeno una generazione in più. Uhm: sgombero da Gaza e crollo del Muro di Berlino: fine di due utopie. Prima o poi questa roba la approfondisco, prometto.
Qui appunto solo un mio pensiero: Gush Emunim (come si chiamava inizialmente il movimento dei coloni) e Peace Now sono in feroce contrasto reciproco, quanto a metodi, obiettivi e visioni del mondo. E sono ambedue movimenti exta-parlamentari - in senso letterale, ovvero che si proponevano di influenzare le decisioni politiche con metodi e azioni svolte fuori dal Parlamento.- e sono nati nello stesso periodo. Ma Gush Emunim è riuscito a creare una cultura propria e adesso esistono figli e nipoti dei fondatori del movimento - e piantano grossi casini. Invece l'età media dei membri di Peace Now si va clamorosamente alzando. Questa cosa qui qualcosa vorrà dire, anche se non so bene che cosa.

qualcosa su Spinoza

La direttrice dell'archivio di Stato di Amsterdam ha ricostruito le traversie economiche della famiglia Spinoza, la bancarotta del padre, e il tentativo di Baruch di sottrarsi alle conseguenze. E' piuttosto imbarazzante leggere di un grande filosofo che chiede alle autorità cristiane di essere sciolto dai vincoli della legge ebraica (che gli imponeva di mantenere i familiari e di pagare i debiti del padre). D'altronde anche Rousseu non era un modello di padre esemplare, eppure ha scritto l'Emilio. E Marx ha sempre avuto due domestiche, forse ne ha pure ingravidata qualcuna; eppure ha scritto Il Capitale. Mi sembra piuttosto difficile "riabilitare" Spinoza, ormai i debiti saranno stati pagati in altro modo. All'epoca della bancarotta eravamo, scusate la pendanteria dello storico, nel 1655. Solo in seguito il giovane Spinoza si è messo in affari con i cristiani, ha scritto dei libri ed è passato alla storia del pensiero filosofico (europe, quindi anche ebraico).
Personali considerazioni: i filosofi, per tutelare il loro vasto sapere, leggono poco la produzione degli storici e rifuggono dagli archivi. Si sa. D'altra parte sapete come va la storiella: Gesù ha portato l'amore e gli ebrei lo hanno ucciso in nome della loro Legge. Spinoza ha portato la libertà di pensiero e gli ebrei lo hanno scomunicato in nome della loro Legge. Poi, in Palestina, tutti abbiamo visto in cosa consiste la Legge degli ebrei. Agli europei questa storia con gli ebrei nemici dell'Amore, della Libertà e della Patria piace davvero tanto. E voi, penserete mica che una faccenducola tra usurai (una bancarotta ... puah) possa oscurarne i filosofici splendori ?

ah, per gli interessati, il saggio è Vlessing, Odette, The Excommunication of Baruch Spinoza: A Conflict Between Jewish and Dutch Law in Jonathan Israel and Reinier Salverda, eds. Dutch Jewry: Its History and Secular Culture (1500-2000), 2002, pp. 141-172

ebrei virtuali

Da almeno una decina di anni l’Europa si è popolata di ebrei virtuali: persone che non sono ebrei, spesso non hanno alcun legame con la vita ebraica, ma sono frenetici consumatori e spesso capaci produttori di cultura ebraica. Comprano libri di argomento ebraico, partecipano a festival di cultura ebraica, visitano mostre sull’ebraismo e musei ebraici, spesso suonano musica di cui sottolineano orgogliosamente le influenze ebraiche. La cultura ebraica (o meglio, ciò che è percepito come ebraico) ha ora un posto di rilievo nel teatro, nella musica e negli spazi urbani dell’Europa: si restaurano quartieri, si aprono musei, anche in località in cui gli ebrei sono assenti da secoli. E’ diventato “normale” essere ebrei in Europa.
Ruth Ellen Gruber descrive questo interesse per la cultura e la storia degli ebrei (al cui interno si inserisce anche la Giornata della Memoria, decisa dal Parlamento Europeo nel gennaio 2000) ed offre sue interpretazioni. Secondo lei molto è dovuto ad un mutato atteggiamento della Chiesa cattolica, che ha posto termine ad una ostilità millenaria; alla fine della Guerra Fredda, durante la quale le classi colte erano quantomeno diffidenti verso l’ebraismo; e soprattutto al desiderio degli europei di riempire quello “spazio ebraico” delle proprie identità nazionali . Il fenomeno ovviamente riguarda anche l’Italia dove, secondo l’autrice di questo libro, si deve soprattutto di Moni Ovadia e Claudio Magris, figure guida di una scoperta della cultura yddish – significativamente, nessuno dei due è ebreo ashkenazita.
L’opinione della Gruber è che questa ondata di interesse per la cultura ebraica sia sostanzialmente positiva, anche se ha dei lati kitsch (caffé ebraici in Polonia dove il cibo servito non è né kasher né cucinato secondo ricette tradizionali ebraiche), anche se non è rara la semplificazione. Gli europei adesso ne sanno molto di più sull’ebraismo e gli ebrei. La responsabilità delle istituzioni ebraiche deve essere quella di presentare la loro vita e cultura in luce meno folklorica. E in questo modo gli ebrei possono contriibuire alla costruzione di una Europa multiculturale.
La Gruber mi convince sì e no. Sì perché ha scritto questo libro percorrendo gran parte d’Europa e descrive un fenomeno che ha toccato con mano. No, perché sono più diffidente di lei a proposito della riduzione a folklore. In tutto questo fiorire di cultura ebraica, io vedo molta gente alla ricerca dell’Altro, o della Alterità. E mi sembra di indovinare molta delusione quando si scopre che “gli ebrei sono come noi” – se non sono così diversi, sembra essere il sottinteso, perché occuparsene? Perché una Giornata della Cultura ebraica, se non ci si può ascoltare musica klezmer?
Hai voglia quindi a spiegare che ci sono angoli di mondo in cui gli ebrei non hanno mai ascoltato musica klezmer. Hai voglia a parlare dell’Amsterdam di Spinoza, dove gli europei hanno scoperto non gli ebrei ma la tolleranza, che pure dovrebbe essere uno dei valori fondanti di questa Europa unita – salta sempre fuori quello che ti deve raccontare la favola di Spinoza perseguitato dall’Inquisizione ebraica (per la cronaca, chi è andato a leggersi e carte d’archivio ha scoperto che le cose erano molto più banali). Perché, visto che ad Amsterdam gli ebrei non erano straccioni e sognatori come nella Belz visitata da Joseph Roth, allora erano poco ebraici, e quindi cattivi e intolleranti. Proprio come noi.

Ruth Ellen Gruber, Virtually Jewish: Reinventing Jewish Culture in Europe, niversity of California Press, 2002.

burka

Klal Israel. Si può tradurre con "completezza di Israele". E' una bella cosa, il principio secondo il quale ognuno di noi c'entra con (o addirittura è responsabile per) qualcun altro. Implica che ognuno di noi ebrei è una parte del popolo ebraico, non lo rappresenta per intero. Il problema, secondo me, inizia quando questo principio viene tradotto in una istituzione sostenuta dallo Stato: perché ritengo che questo coinvolgimento dello Stato in faccende religiose non sia affatto un bene.
Lo Hartman Institute è una prestigiosa istituzione fondata e diretta da un rabbino ortodosso di idee molto liberali - e fa parte di quell'arcipelago che viene chiamato inter-denominazionale, in cui si cerca di mettere in pratica il principio del Klal Israel. Un po' di giorni fa David Hartman ha annunciato che avrebbe esteso la semicha, l'ordinazione rabbinica, anche alle donne. Avremo quindi donne rabbino ortodosse. Non che ci sia da montarsi la testa, ma comunque è una bella notizia.
Il problema è che in Italia, dove il principio del Klal Israel si traduce in una istituzione statale (l'UCEI, a direzione rabbinica ortodossa), a questa notizia è stato dato un risalto esagerato. Come a testimoniare che l'ortodossia intera si starebbe spostando a sinistra e che quindi non esisterebbe più l'esigenza di un pluralismo interno al mondo ebraico - ovvero un ebraismo indipendente dalla benedetta istituzione statale di cui sopra. Benedetta nel senso che la benedicono rabbini ortodossi, ovvero gente per la quale i Neture Karta sono ebrei e chi si è convertito con sinagoghe conservative, no.
Ora, io ho molto rispetto per chi cerca di spingere l'ortodossia su posizioni più moderne e magari inclusive. Ben venga la signora rabbina ortodossa. Però vorrei ricordare che in Israele, tra gli ortodossi le cose vanno più spesso in questo modo.


Sì, è un burka. La foto e la notizia sono tratte mica da un sito di provocatori o di anarchici contro il muro, o di deficienti che vogliono raccontare che da queste parti ci sarebbe una teocrazia. E' il blog di un tale che non è esattamente una colomba, e anzi uno che ha le sue buone ragioni per difendere lo Stato di Israele e la sua immagine: ecco qua, per esempio, cosa scrive sulla sceneggiata di Gaza a luci spente.
Insomma: ci sono donne ebree ortodosse che si mettono il burka in osservanza della loro interpretazione della tziniut. E scommetto che in Italia a tale notizia verrà data poca risonanza, eppure riguarda molte più donne della singola -di solito americana- che decide di diventare una rabbina senza sapere bene se, una volta finiti gli studi, troverà un lavoro che le permetterà di pagare i debiti fatti per studiare. A lei va tutto il mio rispetto. Rispetto meno chi la strumentalizza, e poi tace la storia di Bet Shemesh e i problemi che tali comportamenti suscitano.
Che poi coloro che tacciono su Bet Shemesh siano anche ideologicamente vicini a Moni Ovadia, è un'altra faccenda divertente. Sì, perché secondo Moni Ovadia, quelle signore col burka sarebbero parte degli anti-statalisti che verrebbero discriminati dallo Stato di Israele. Mentre il colono che rende nota la notizia anche a chi non legge l'ebraico, sarebbe un personaggio pericoloso. Io non la penso affatto così. Riguaratevi la foto. Non è Kabul. E' Israele, anno ebraico 5768. E quello è un burka. Sì, è vero, l'ortodossia si sta muovendo. Verso dove, mi sembra evidente.
Ah, io a quella gente farei fare il militare, perché Israele ha bisogno di essere difesa e perché quel genere di costumi tribali si sconfiggono con le maniere forti, tipo Afghanistan. So che Moni Ovadia la pensa in maniera diversa su tutti gli eserciti perchè nei quadri di Chagall gli eserciti non ci sono. Ma nemmeno i burka, aggiungo io. E tanti saluti a Moni Ovadia e ai suoi fan che mi scrivono scandalizzati.

lunedì, gennaio 28, 2008

in diretta dal centro del mondo

Il Comune ci avvisa che domani si scatena una tempesta, pioggia, vento e verso sera pure la neve. Il portavoce del sindaco è comparso in televisione per dire che Gerusalemme è la città più bella del mondo, quando nevica, e che bisogna stare attenti a non scivolare. Siccome domani si presenta il rapporto della Commissione Winograd, ci hanno assicurato che le strade attorno alla Knesset saranno pulite. Mentre scrivo sento fuori un vento madornale, pare sia anche caduta una insegna.
Ho appena letto una nota del grandissimo Uriel a proposito dell'odore delle città. Eccola qua:
Condivido in pieno. L'odore di Bologna è lo stesso delle città emiliane, e siccome ci sono stato in mezzo un sacco di volte, mi pare quasi si sentirlo. Di Milano, ripeto, non parlo - ma condivido. E questa città, che per tanta gente è stata ed è il centro dell'Universo?
C'è una poesia di Yehuda Amichai in cui lui sta seduto (mi pare) su una pietra, passa una guida turistica e si mette a parlare di quanto è importante quella pietra, perché dicono che quella sarà la pietra da cui si vedrà il Messia (che 'sto Messia, se quando arriva dovesse fare tutto quel che dicono deve fare a Gerusalemme ci mette un paio di anni e finisce che Olmert la scampa nche stavolta). E Amichai dice che il Messia arriverà quando la guida, ed i turisti, vedranno un uomo e non una pietra. Bello, e profondamente ironico, come tutta la poesia di Amichai. Però Gerusalemme è quelle pietre. E' quella storia.
In Italia se e quando viene Bush si tirano delle maledizioni contro Bush per quello che fa altrove. Qui Bush è venuto per discutere del futuro di questa stessa città. Qui la storia la senti. Là, in Europa, stai dentro una specie di bolla, dove l'oggi è, grossomodo, uguale a ieri o simile a domani. Qui no, questa sicurezza non la hai. Tu passeggi per Milano, per Torino, per Bologna, e i monumenti sono monumenti, stanno lì da secoli. Qui passi accanto all'Hotel King David, quello della bomba, e conosci uno che ha il fratello che conosce quello che la ha messa, quella bomba che sconfisse gli inglesi - gente che solo a teatro si sentiva dire che se un ebreo è ferito, sente male lui pure. Qui senti la storia scorrere sulle pietre. L'odore di quesa città è l'odore del vento.
Gerusalemme ha un odore secco. Il vento, dicono, odore non ne ha. Non è vero. Provate a venire qui. Il vento, qui, sa di rosmarino e di sole, anche quando è inverno. Gerusalemme è una città aspra, gli abitanti sono gente dai modi bruschi, non si fanno convincere e alzano facilmente la voce. Ed è un accento che uno può riconoscere, come in Italia si riconosce l'accento dei bergamaschi - e qualcosa in comune, non scherzo, c'è: le vocali cupe, per esempio. E quel sh che collega una parola all'altra e si mangia le vocali brevi. E il modo di ridere: a Gerusalemme si ride mostrando i denti. E certo, perché qui la gente è aggressiva e scostante. Dico, a voi non girerebbero le palle se la vosta città fosse periodicamente invasa da esaltati alla ricerca di una Disneyland delle religioni?

Aggiornamento: foto del mattino dopo. Ancora odore di vento.

e poi un fiasco d'olio

Il lirismo degli antisemiti si scatena quando possono avere a che fare con un cadavere.
I sinistri (o quasi) autori che popolano l'italica rete, particolarmente quelli che, non essendo ebrei, non hanno mai rischiato di venire dirottati dalla banda capeggiata da Georges Habash, abbrunano le proprie bandiere (1) e rendono omaggio al loro eroe, ovviamente morto in miseria perché sono fighi solo quelli che perdono - sennò questi come si identificano.
Apprendiamo così che Habbash era cristiano, laico, nazionalista, marxista e islamista. Insomma urla silenziose sotto il gelido solleone a mezzanotte quando il sole è alto in cielo e il cancello in mezzo al mare è spalancato per pemettere la fuga del cavallo morto. L'ANSA si accoda: nel comunicato stampa nessuna menzione delle vittime del FPLP.
A volte penso che si potrebbe tradurre in italiano qualcuna delle poesie di Uri Greenberg. Giusto per far vedere che anche da queste parti, quanto a retorica, non si scherza. Poi uno potrebbe fare il paragone tra la attività di Greenberg e quella di Habash. Un parlamentare che siedeva allo stesso tavolo dei suoi nemici più irriducibili (ed esterni al suo partito) e uno abituato a risolvere con il revolver le questioni ideologiche interne al suo movimento.

(1) In vita mia ho letto una sola volta questa espressione. Era sui manifesti che annunciavano il cordoglio per un leader del movimento operaio. Il quale si chiamava Giuseppe Saragat: il suo partito era il PSDI, laddove S stava per socialista. Ma il partito è passato alla storia per la regolare occupazione del Ministero dei Lavori Pubblici nell'epoca in cui le autostrade italiane collegavano la capitale con remoti angoli di provincia, che erano però collegi elettorali di parlamentari del predetto PSDI. Tutto questo asfalto avrà portato un gran contributo al movimento operaio e al progresso dell'umanità verso un futuro di pace. Ma Habash nemmeno quello.

sabato, gennaio 26, 2008

punizione collettiva

Questo articolo sembra essere sfuggito a tutti quelli che (e sono tanti) dall'Italia leggono avidamente Haaretz; che poi per loro significa leggere Amira Haas. Che sarebbe come farsi una idea su quel che succede nel Parlamento italiano leggendo gli editoriali di Libero.
Tesi dell'articolo di Haaretz: i Kassam su Sderot sono una forma di punizione collettiva. Per quel che vale la mia opinione, io condivido. Buona lettura.

The Qassam as collective punishment
By Bradley Burston

Imagine a situation in which thousands and thousands of people, many of them children and the elderly, are plunged into a reality in which they must fear for their lives day in and day out, in which their livelihoods are crippled, with their schools and even pre-schools under siege. Entire communities are trapped, paralyzed. Whole childhoods are spent in a state of post-traumatic stress. Occasions that should be high points in a lifetime are routinely curtailed or canceled.
The people living in this place are forced to bear the burden of the entire Israeli-Palestinian conflict. They are the unarmed proxy warriors of their side, victimized by the tactical cruelty of the other.
They are the victims of collective punishment. And they live in Israel. The world is unsympathetic. The world does not think highly enough of Hamas to hold it accountable for the actions of the gunners who use the launchers produced by Hamas and the rockets produced by Hamas.
The world believes that if Israel outguns Hamas with an arsenal that includes the most advanced fighter bombers and even explosives millions of times more powerful than a Qassam rocket, the people of Sderot will somehow be protected from the rockets that strike them day in and day out, year after agonizing year.
The people of Sderot have nothing but miracles to depend on. And even miracles betray them. Because if they are spared from death by one miracle after another, the world cannot be bothered to care about them. Even their fellow Israelis concede that they would do more to defend the people of Sderot, if more of them were being killed - yet another form of collective punishment, as the people of Sderot know that they must literally die, and in appreciable numbers, for the government to take action on their behalf.
When Israel cut fuel shipments to Gaza this month, the same defense establishment that had been given weeks and months to plan for the step, found itself taken aback that water and sewage pumps stopped working in some areas of the Strip - not because of Hamas subterfuge or Hamas hyperbole: Palestinian power plants had no fuel. Many Gazans, non-combatants, were left without water in a public health crisis akin to a natural disaster.
Ironically, Israel's ability to misread the plight of Gazans may only have been prevented from causing catastrophe by an accompanying miscalculation: the failure to anticipate the exodus of thousands of Gazans into Egyptian territory in search of vital supplies.
There's a certain perverse justice to how all this works. When it comes to terrorism, the Palestinians practice intentional killing of civilians. When we kill civilians in the context of military activity, we view it as incidental, the regrettable by-product of necessary self-defense.
In the case of collective punishment, the opposite situation obtains. We practice collective punishment as an intentional tactic, believing it to be more humane than outright invasion and carpet bombing - holding on, as we do, to the preposterous hope that after 40 years of failing at it, perhaps this time we will persuade the people of Gaza to bring their own militants to heel.
The Palestinians who fire Qassams, meanwhile, see that act not as collective punishment but as legitimate self-defense, employed because they have no other alternative.
They are wrong. Dead wrong. And so are we.
Collective punishment is abhorrent. It is morally reprehensible. It is functionally self-defeating. It destroys the moral fiber of those who order it, practice it, countenance it, turn a blind eye to it. And those who are subjected to it.
This may explain why the victims of collective punishment may find themselves resorting to its use. We are guilty of it. The Palestinians are no less guilty.
Crimes against humanity are crimes against humanity. The victims of crimes against humanity never "had it coming to them," much as we might try to persuade ourselves of this.
We're going to have to find some other way to stop the Qassams. After an eternity of both sides resisting it, we may have to talk to Hamas, the only party in Gaza with the potential to actually stop the Qassams. In the meanwhile, it is time to think long and hard about what we gain and what we lose by practicing collective punishment in Gaza.
The Israeli airwaves have been awash in recent days with learned, intelligent people arguing that no one who has a healthy mind supplies his enemies with the tools and the fuels of war. Their point is understandable. But it assumes that there is logic to this conflict. It assumes that the target of Palestinian anger over collective punishment will be Hamas and not Israel. It assumes that the world is ready to change its rotation.
It also assumes that the world is ready to accept collective punishment. Perhaps the world's silence over the Qassam fire on Sderot proves that it is. If that's the case, God help us all.

parasha Ithrò

I Comandamenti -va bene, va bene, la traduzione Comandamenti è inappropriata, lo so- iniziano (Esodo 20:2) con la parola אנכי, cioé con la lettera א, che come è noto è muta, è un semplice conato, un tentativo di suono che rimane nella gola. Lo Zohar riporta una famosa discussione in proposito. Il termine אנכי, che è uno dei modi di dire io, non si trova così spesso nella Bibbia, e uno dei punti in cui lo si trova è Genesi 46:4, Io verrò con te in Egitto - dice Dio a Yakov. Quindi secondo lo Zohar, questo אנכי di Esodo 20 è Dio che ha accompagnato gli ebrei in Egitto e li ha liberati. Un'altra opinione vuole che dopo אנכי ci sia stata una pausa, e che le parole successive -il Signore vostro Dio- siano uscite dal cielo, come riportato in Esodo 20:22. La presenza di Dio, con tutte le mitzwot, la strada verso la liberazione, era quindi presente già nella prima lettera della prima parola, che è una א, una lettera semi-muta, un suono che riesci a sentire se proprio vuoi - per semplificare pagine molto belle di contemporanei (Lawrence Kushner, per esempio).
Si sono spese molte parole (le ho spese anche io) per creare il bailamme degli ultimi giorni, in cui noi ebrei, quel che siamo e quel che crediamo -l'essere ebrei, l'Ebraismo. Non sono soddisfatto del risultato. Internet è simile a una edicola, non a una biblioteca: finisci per leggere solo i titoli, occhieggiare le copertine, fare qualche abbonamento. Si accumulano parole, e accumulare parole sull'essere ebrei trasforma la realtà degli ebrei in uno strumento per battaglie ideologiche. Non c'è niente di male nelle battaglie ideologiche -io, poi, mi ci diverto anche- fanno parte della realtà della vita e l'Ebraismo non è ascetismo, non è fuga dalla realtà. Il movimento dovrebbe essere inverso: cioé le battaglie ideologiche dovrebbero essere "santificate", parte di un percorso di liberazione. E l'essere ebrei non dovrebbe essere uno strumento per essere qualcosa di altro. Servirebbero degli antidoti a questa strumentalizzazione. Sarebbe facile se fosse proibito nel nome di qualche autorità superiore. Ma come si fa, quando il massimo che puoi imparare dalla tua tradizione è un suono inarticolato?
Però. Proseguiamo la discussione dello Zohar. Se Dio fosse nel silenzio prima di quel suono? Se Dio fosse nella possibilità? Nel silenzio che rende possibile sentire, e poi ascoltare, capire, distinguere? Se fosse, cioé, una condizione che rende possibili i discorsi, le interpretazioni, la vita? Qualcosa che sta alla realtà come le regole grammaticali stanno al linguaggio. O ancora prima.
A pensarci bene, non siamo in molti ad aver sentito parlare di Dio, perlomeno nella nostra educazione. Però sappiamo che siamo ebrei, di questo sentiamo parlare (oh, quanto!). Ci manca il linguaggio per collegare Dio a questo nostro essere ebrei. Ed è bene che il linguaggio non ci sia, perché quelli che parlano nel nome di Dio, oltre ad essere piuttosto pericolosi -specie di questi tempi, nella nostra tradizione sono diciamo impopolari. Noi sappiamo solo che Dio, in qualche modo, con noi c'entra. In un modo che non sappiamo bene quale è. Tipo un parente.
Ci sono sei parashot nella Torah nel cui titolo c'è un nome di persona. Tre di questi personaggi sono ebrei: Sara, Korach, Pinchas. Tre non sono ebrei: Noah, Ithrò, Balak. Di questi tre l'unico che ha una relazione specifica e positiva con il popolo ebraico è Ithrò. Nella parashà che porta il suo nome sono elencati i Dieci Comandamenti, che sono un po' il biglietto da visita con cui gli ebrei si presentano ai non ebrei, particolarmente a quelli monoteisti. Ma prima di quei Comandamenti, prima di quelle parole che sono anche fatti/cose (a voler tradurre accuratamente), prima c'è, appunto, il silenzio. Una condizione per poter sentire.
Io qui non sto proponendo di arrivare a Dio attraverso il silenzio. Dio è qualcosa di altro rispetto alla realtà in cui viviamo noi, che il silenzio lo riempiamo fino a cancellarlo. Non possiamo pensare di essere Dio. O di agire nel nome di Dio, come succede nei totalitarismi. Il silenzio, per me è una condizione. Una specie di berakhà, che si recita prima di compiere ogni azione. Più specificatamente, simile alla berakhà che pecede lo studio e chi ci impegna nel confronto con testi, linguaggi e tradizioni che non stanno nella nostra realtà, riempita di parole e di immagini.

mercoledì, gennaio 23, 2008

dalla Valdossola a Gerusalemme (in risposta a MMAX)

C'è una tizia che passa tanto tempo in Egitto e che ha un blog e sul suo blog scrive quanto è bello l'Egitto e quanto stavano bene ebrei ed arabi insieme, che se solo non fosse nato il sionismo, quella roba cattiva. Poi ci sono io che sono andato a chiederle un paio di opinioni sul perché e come gli ebrei sono stati cacciati da lì, lei se la è presa male, mi ha citato un paio di "studi" prodotti da case editrici tipo negazioniste, io mi sono messo a ridere. Eravamo dalle parti di un blog milanese di sinistra, Milano è città medaglia d'oro della Resistenza e su queste cose non si scherza.
Poi sono successe tante cose, la tizia si è addirittura semisposata e semidivoziata con un pezzo da novanta dell'Islam italiano. E nel corso di questo suo divorzio ha scoperto alcune miserie dell'Islam italiano, ma la figuraccia di cui sopra la prese davvero male. Invece di ringraziarmi che la avevo avvisata....
Sta di fatto che nel giro delle sue conoscenze (che poi i blog sono sta cosa qua, io linko te, tu linki me e tutti sanno che siamo amici) mise in giro la voce che c'era un sionista cattivo a Milano. E quelle rare volte che mi capitava di commentare quelle poche cose che leggevo, tac, ti arrivava l'informazione che io ero più o meno un fascista. Così mi sono incontrato con uno che per un poì è andato avanti a chiedermi cosa ne pensavo di Arutz7, che è una emittente radio qui in Israele, che trasmette anche via Internet e che ascolterò si e no una volta alla settimana, perché c'è una trasmissione di musica che mi diverte.
Ora, io con i fascisti vado poco d'accordo, sono nipote di partigiani e da ragazzino andavo in vacanza dalle parti della Repubblica dell'Ossola, e cosa è stata la Resistenza credo di saperlo abbastanza bene. Perché da quelle parti è stata guerra civile. Io e tutto il mio gruppo di amichetti eravamo nipoti di partigiani e quelli del gruppo con cui facevamo più volentieri a cazzotti erano, guarda che strano, tutti nipoti di fascisti: ma lo ho scoperto solo molto più tardi, all'epoca noi solo si respirava l'idea che con quelli là era meglio non averci a che fare. E farci a cazzotti non era nemmeno male. E noi nemmeno si chiedeva il perché, era così e basta, era di quelle cose che non si chiedono. I paolotti dell'oratorio, se erano nipoti di gente che era salita in montagna dietro indicazione del prete (predica dell'8 settembre, "è venuta l'ora") erano per noi gente migliore pure del nipote del fascista più presentabile, quello che aveva rischiato di persona per mettere al sicuro i suoi concittadini dalla rappresaglia tedesca. Quella volta che erano arrivati quelli della Muti, e avevano preso un bambino che era poi il babbo di uno di noi e dicevano ridendo: Piangi piccolo, che poi tuo padre con una pallottola nella testa piangerà di più.
Ca**o, io che volevo pure dimenticarmi di Milano, guarda qui cosa mi trovo a scrivere. La storia della Muti. Ripeto: so abbastanza bene di non essere affatto fascista. Sono sionista perché non sono fascista. Perché il nazismo è il buco nero della storia umana e non ci sono ca**i, il signor Husseini ha collaborato con i nazisti. Cosa che la signora del blog d'Egitto non voleva sentirsi dire.
Ora l'Italia, la sinistra italiana, la blogpalla della sinistra italiana è generosa con il signor Husseini, che mentre procedeva lo sterminio in Europa, stringeva le mani dei peggiori criminali della storia umana. Dicono che lo faceva per anticolonialismo. Come se fosse una scusa buona, o una scelta obbligata. Ma non è mica vero. Il signor Husseini era capo di un clan, che tra parentesi è ancora proprietario di buona parte degli edifici di questa città, e si trovava a fronteggiare il clan dei Nashashibi, che anche loro quanto a proprietà immobiliari non scherzano. Qui sotto vedete una lapide che sta in Melekh King George, come diciamo a Gerusalemme, una via intestata al sovrano inglese.


I Nashashibi erano, al momento della inaugurazione di quella modernissima via, il clan arabo più potente. Se al signor Husseini fosse importato qualcosa non dico del bene del suo popolo, ma almeno della manutenzione delle strade, non avrebbe nemmeno iniziato quella guerra civile intrapalestinese che ha fatto più morti di ogni strage sionista. Ma i Nashashibi erano alleati dei britannici e questa città (che non è mai stata capitale di niente, sotto gli arabi) si stava trasformando da angolo polveroso di medio oriente in meta turistica -e c'erano degli ebrei che avevano fiutato l'affare, così una famiglia aprì il King David. E ci si misero pure i cristiani, e aprirono lo YMCA, progettato dallo stesso architetto che progettò l'Empire State Building, e gli Husseini volevano il loro albergo e lo aprirono e per avere mercato libero il signor Husseini andò ad allearsi con i tedeschi che avevano promesso di liberargli il campo dalla concorrenza. Di queste miserie è fatto il nazionalismo palestinese, che tanto affascina la signora del blog d'Egitto. Quella che ebrei ed arabi andavano tanto d'accordo. Lo dicono libri stampati da nazi, che diamine. Quella che io sarei fascista. Perché sionista.
Ora succede che uno dei fan della signora, di quelli che ha impedito al sottoscritto di commentare sul suo blog proprio perché ero un fascista e non volevo prendere le distanze da una radio che ascolto si e no una volta alla settimana, uno di questi bei tomi, dicevo, se ne va per la rete a chiedere opinioni su cosa si può leggere a proposito della Shoah. Attenzione, che il poverino, che è anni che straparla di Israele e dintorni, manco sa l'ebraico, che se avesse scritto di meno e studiato di più a quest'ora sarebbe in grado di leggere Haaretz in lingua originale. Però alla sua biblioteca ideale della memoria lui tiene tanto, ma proprio tanto. Basta che non ci siano testi in ebraico, però. Che è una cosa seria e che non bisogna parlare troppo della Shoa (scusa, signor censore, che ca**o stai facendo tu? Stai parlando, si o no?). E perché? "Per non riconciliarsi" con il fondo di cattiveria che c'è in ciascuno di noi - israeliani compresi. Che si sa, la Shoah sta lì, in un punto indefinito nel Novecento e ci dice a tutti di essere più buoni. Lo dice a tutti, ma proprio a tutti, inclusi i sionisti, che sono fascisti perché -forse- ascoltano una radio.
Il blog di questo signore, che non sa l'ebraico, ma ci scommetterei che ha l'amico ebreo, è ridondante di ammonizioni agli israeliani e di appelli al buon cuore dei palestinesi o dei lettori stessi del blog, che presumibilmente sono cattivi verso una delle due parti in conflitto e la giudicano severamente - indovina quale. E' comico, certo. Uno che si disegna una rappresentazione personale di Israele divisa in buoni e cattivi e in cui i cattivi sono quelli che vincono le elezioni. E i buoni sono quelli che si ricordano della Shoah nel modo giusto - che è quello che decide lui. Che non è ebreo ma si ricorda, oy va voy, persino del Tisha beAv. Dico, come si fa a non dire grazie a un personaggio così? Non ne vedete il ferreo impegno contro l'antisemitismo? Nota: impegno contro l'antisemitismo significa chiaccherare con la signora d'Egitto per dirle quanto non è d'accordo. E non vedete come è importante, cruciale (cioé a forma di croce) la Memoria (maiuscolo! maiuscolo!) per lui? La Memoria degli ebrei morti, voglio dire. Del piccolo mondo antico che per definizione è sempre meglio del presente.
Un amico americano, dopo un affollato concerto di Moni Ovadia in cui in sala eravamo solo tre ebrei (io, lui e Moni Ovadia appunto) mi disse: ho avuto un incubo. La Yddishkeit che si risveglia, scoprire che passato e presente non sono decisi da ebrei. Tutto, tutto deciso da goim: non solo se essere ebrei, anche e soprattutto come essere ebrei. Questo signore, con la sua galleria di santini, la sua personale via crucis in forma di biblioteca, questo signore dentro l'incubo ci vive. Invece di meditare sui misteri del Rosario, lui medita sulla Shoah. Nello stesso identico modo delle beghine: al posto del Rosario lui recita la litania della Memoria. Però non lo sfiora mai il pensiero che, se ci fosse stato uno Stato, adesso sarebbero vivi quegli ebrei morti che riempiono il suo blog. Che sono tutti anonimi, una specie di entità semitica collettiva del tempo che fu. Non esseri umani concreti, che magari provano solo ad essere come gli altri, no. Non devno creare uno Stato, devon servire da legge morale per il mondo.
Adesso succede che MMAX, che sta tra i link di questo signore, amico di quella dell'Egitto, mi chiede di aiutare il signore di cui sopra a preparare la sua biblioteca della memoria. Io davvero non so cosa scrivere. Datemi delle idee voi. Prometto che non censuro. Nemmeno quel signore.

"great deal of success"

Lo scopro solo ora.
"The Lubavitch and Reform movements have been growing in many Italian cities. The Reform movement, called Lev Chadash, founded in 2001 by a group of Italian Jews disagreeing with the Orthodox establishment in matters of conversion and mixed marriage, it had a great deal of success."
Dalla voce Italy della Encyclopaedia Judaica, Detroit, 2007 (vol. 10, pp. 813-814). Questa parte della voce, curata da Robert Bonfil, è datato 2004.
Wow: "great deal of success". Essendo stato uno di quegli "Italian Jews" e avendo avuto qualche responsabilità in quel periodo, dedico questo successo di critica agli altri, leali, compagni di avventura. Dovunque siano.

Michael Heymann z.l.

Io lo so che da adesso in poi, poco prima dell'Alenu, ci guarderemo l'un l'altro e sentiremo la mancanza di Michael e del suo accento tedesco. Vi velcom our guests - disse una sera di qualche anno fa: io e mia moglie eravamo, appunto, ospiti di quella che adesso è diventata la nostra sinagoga. Michael Heymann, qualunque fosse il ruolo che ricopriva (e di ruoli ne ha ricoperti tanti, anche nel movimento Reform israeliano), era uno dei volti familiari. Forse il volto più familiare, quello che ti porgeva il Siddur all'ingresso, quello che ricordava le attività della settimana prima della fine della funzione, il primo ad arrivare e sempre l'ultimo ad uscire. Di solito in giacca e cravatta. Perché uno mica è yekke per niente. La nostra sinagoga ha appena festeggiato i suoi cinquanta anni. Michael, uomo giusto, è riuscito a esserci.

domenica, gennaio 20, 2008

semplice da capire

"When we didn't have F-15s, we had Auschwitz"

sinagoga karaita

Non esiste un accordo tra gli studiosi a proposito dell'origine dei karaiti. Al Kirkisani, un autore del decimo secolo, dà un vivido resoconto delle varie posizioni in materia di rito e di calendario di diverse correnti ebraiche presenti a Babilonia. Per spiegare meglio al lettore un po' confuso, Kirkisani chiosa: "Ma la differenza tra noi e quelli che seguono i rabbini, è che loro ritengono che le loro leggi siano dettate dai profeti, pertanto immutabili. Noi guardiamo la Torah [Bibbia] e interpretiamo con la nostra ragione umana. E la ragione può portare a differenti risultati".
Nello stesso periodo si stabilisce a Gerusalemme Daniel ben Moshe al Kumisi, il primo studioso karaita. Da allora ad oggi la piccola sinagoga karaita nella Città Vecchia è sempre stata in uso. La vedete qua. Nel 1099 i crociati chiusero dentro la sinagoga i karaiti e li bruciarono vivi, ma pochi decenni dopo la comunità era tornata numerosa. Sono karaiti i gerosolimitani che traducono la Bibbia in arabo ed era molto probabilmente karaita Aharon ben Asher, l'autore del testo masoretico conservato nel Codice di Aleppo. La presenza dei karaiti a Gerusalemme è continuata ininterrotta salvo, naturalmente, la breve occupazione giordana di Gerusalemme, quando gli edifici del quartiere ebraico vennero trasformati in stalle.

Un signore ebreo egiziano che ho conosciuto a Milano dice che suo padre, al Cairo, aveva un grande rispetto per i karaiti. Persone oneste, famiglie onorate.

Le principali differenze tra karaiti e altri gruppi ebraici riguardano il modo di calcolare i gradi di parentela e il calendario. Hanno poi proprie regole alimentari (non osservano il divieto di mischiare carne e latte), propri tallitot - con il filo blu dentro gli tzitzit- e proprie regole per la circoncisione. Non hanno il Talmud, ma nei secoli hanno prodotto propri compendi di halacha. Mezuzah e tefillin sono da loro considerati in senso simbolico e non sono sottoposti a regole. Qualcuno affigge all'ingresso della casa un disegno stilizzato delle tavole della Legge. Nei casi dubbi seguono la regola della maggioranza degli ebrei locali.

Un amico romano che studiava per diventare rabbino ammira i karaiti. Dice che hanno scelto di basarsi su un testo indiscutibile.

"Siamo qualche decina di famiglie, molti vivono fuori dalla Città Vecchia. Non si può usare la macchina di Shabbat, ma noi teniamo la porta aperta. Tra ascoltare la tefillah e rimanere lontani dalla Comunità, ognuno sceglie. Yesh Shofet bashamaiim - c'è un Giudice nel cielo" - dice sorridendo la moglie di rav Moshe, hakham della comunità karaita di Gerusalemme.

La bibliografia sui karaiti comprende più di 7000 titoli. La questione che ultimamente appassiona molto gli studiosi è la presenza, all'interno della Ghenizah del Cairo, di documenti scoperti a Qumran. Assumendo l'origine del gruppo di Qumran in ambienti sadducei, si potrebbe collegare l'origine dei karaiti alla persistenza di dottrine sadducee: il rifiuto della legge orale, l'enfasi sulla Mikrah, il rigore rituale.

Come esiste un risveglio ebraico nella ex URSS, così c'è un certo fermento anche tra i karaiti. E' notizia di pochi mesi fa: in un villaggio siberiano vivono una ottantina di famiglie karaite, hanno scritto in Israele chiedendo libri per il culto.

La funzione è lunga: tre ore e mezzo. Le funzioni solenni durano anche cinque ore. Si prega stando in piedi oppure inginocchiandosi alla maniera musulmana. Ci si siede solo per la lettura della parasha, che è la stessa di tutte le sinagoghe del mondo. Le Haftarot sono differenti. Ogni parasha è divisa in sei (in qualche caso sette) alyot più il maftir. Quando si dice lo Shemà si allargano le palme delle mani. Le donne sono anche contate nel minyan, ma non salgono a Sefer. C'è la mechitzah, ma la moglie del rabbino la superava ogni volta che doveva aiutare noi a trovare il punto del Siddur efo anakhnu, dove siamo. Nel Siddur si riconoscono brani del Tanakh. Non c'è la Amidah, ma concludono la funzione con il canto Ein Kelohenu. C'è una vasta produzione di piutim, poemi liturgici. La cantillazione è molto simile a quella delle comunità medio-orientali: ma l'andamento è responsoriale, e le voci delle donne si sentono molto bene. Le parti bibliche che invocano la distruzione dei nemici sono recitate molto in fretta, oppure lette in silenzio. Tutto il rimanente è accuratamente scandito. ח e כ si distinguono chiaramente.

L'halakha karaita si basa su quattro regole esegetiche: kal va-homer o a fortiori, semukhin o analogia, bynian av / k'lal ha-ferat o sussunzione sotto un principio generale / individuazione del principio dal caso particolare, hagbarah o estensione di una nozione. Vi sono poi alcune particelle del testo biblico che loro considerano intercambiabili (et e kol) ed altre di cui danno una traduzione meno libera (min, rak). A queste regole esegetiche, presenti anche in una baraità del Talmud, i karaiti ne aggiungono di altre: il consenso della comunità, l'analogia logica, il significato letterale del versetto, il ricorso alla ragione umana.

Anni fa il manifesto riuscì a pubblicare un articolo pieno di frottole, in cui per elogiare i karaiti spiegava che non si ritengono ebrei. Era il periodo in cui un gruppo di nazionalisti russi aveva creato un "Fronte nazionale karaita" che sosteneva la loro origine non semitica e che, appoggiandosi a lavori di teorici filo-nazisti, dichiarava che la loro religione deriva dal culto di Mithra. Durò meno di un anno, il quotidiano comunista non ha informato sullo scioglimento.

I karaiti di Gerusalemme sono in gran parte nati in Egitto e arrivati qui dopo i sanguinosi pogrom ordinati da Nasser. Ma c'è anche un signore russo che è scappato dalla Crimea nel 1989, il KGB aveva scoperto dei libri a casa sua e volevano fargli delle domande.

Ieri siamo andati alla sinagoga karaita. Eravamo in quattro. Un paio di russi, un americano e io. Uno dei russi conosce bene i karaiti, nella sua città c'era uno dei centri più importanti. Lui è stato bambino negli ultimi anni di comunismo: i karaiti della sua città frequentano le sinagoghe locali. Sono tutti discendenti di famiglie molto ricche, proprietarie di piantagioni di tabacco. Qui a destra una incisione del secolo scorpo, tratta dalla Jewish Encyclopaedia. Nella Russia zarista i karaiti erano esentati dalle proibizioni che gravavano sugli ebrei. L'altro studente russo ha visitato l'unica sinagoga karaita polacca che è ancora in attività: apre un paio di volte all'anno. Io ieri sono salito a Sefer.

Il hakham rav Moshe mi ha spiegato: "Il mio lavoro è spiegare cosa è permesso e cosa è proibito. Cosa si può mangiare secondo la Mikrà [Bibbia] e cosa non si può mangiare. E come va conservato quel che si può mangiare. E quando, perché di Sabato non si può mangiare cibo riscaldato. Ma io non posso entrare in casa delle persone e aprire il frigorifero".

In Israele vive il maggior numero di karaiti: 30000, prevalentemente a Holon e Ashdod. Altri 10000 vivono in USA. Esiste una congregazione a San Francisco. Nei territori della ex Unione Sovietica ce ne è un paio di migliaia, soprattutto in Crimea. Qualche decina di famiglie è a Istambul. Alcune famiglie stanno in Europa, e (mi hanno detto) a Milano c'è un dentista; tutti frequentano le sinagoghe "rabbanite". Al Cairo, poche persone si prendono cura come possono della Grande Sinagoga: la biblioteca è piena di manoscritti preziosi.

La Grande Sinagoga karaita del Cairo

Scuola karaita, Il Cairo, 1920. Tratta da HJSE

venerdì, gennaio 18, 2008

yad vashem

E così, dopo sei mesi che sono a Gerusalemme, ho trovato il modo, il tempo, la voglia e una specie di coraggio di visitare Yad Vashem.

Poco prima di uscire di casa un tizio italiano mi ha chiesto via Internet in maniera strafottente che cosa mi aveva spinto a fare alyah. Probabilmente si aspettava un parere sull'antisemitismo in Italia. Che esiste, e che ho incontrato. Ma non ha nulla a che fare, almeno credo, con la mia decisione di venire fin qua per avere un passaporto dello Stato di Israele.
Comunque, mentre scendevo dall'autobus uno dei jingle di Radiopopolare continuava a saltellarmi in testa. Una roba allegra, scanzonata. Ma non mi sentivi fuori luogo. A Milano, città in cui ho vissuto, Radiopopolare è una presenza costante. Diciamo che la popolazione Lombardia si divide in due: quelli che ascoltano Radiopopolare perché sono dalla parte giusta, e quindi perdono le elezioni, e quelli che invece le vincono. E Yad Vashem fa parte di quell'insieme di ragioni storiche che mi hanno spinto in quella che continuo a ritenere la parte giusta.
Sulla nuova Yad Vashem, riorganizzata da qualche mese, ho poco da dire. Come molti musei israeliani, c'è un uso sapiente della luce naturale. Come molti musei contemporanei, le vicende storiche ci ampio respiro sono punteggiate da quelle individuale. Non ha l'obiettivo di mostrare più cose possibile (come era l'ultima volta che lo avevo visitato, anni fa), ma di mostrare vicende esemplari. Non segue più tutta l'Operazione Barbarossa, ma quello di uno dei "rami", lo Einsantzgruppen C, che percorse Ucraina e Galizia.
Funziona, questo nuovo sistema? Nel senso: insegna qualcosa alle generazioni più giovani? Non lo so. Vedremo tra qualche anno. Ho lavorato come storico per una decina di anni, nelle Università. Mi sono reso conto, parlando con i giovani che iniziano adesso "il bellissimo mestiere degli studi storici" (come diceva un grande maestro) che il rapporto con il passato sta cambiando, e nessuno sa ancora in che direzione.
Ho visitato tutto con attenzione, anche tenendomi sotto controllo. Appena superato l'ingresso sono tornato indietro a prendere un taccuino, di cui poi, durante la visita, ho riempito solo un paio di pagine. Ma comunque dovevo scrivere qualcosa. Dovevo comunque essere un po' scosso, perché ad un certo punto mi sono sentito battere una mano sulla spalla, ed era uno del Museo. Due chiacchere. La sua famiglia vive a Gerusalemme da tre generazioni. Ve-lifneh? E prima? E' una storia lunga. Lituania. E io? Io sono italiano. Haia lanu mazaal. Siamo stati fortunati. Io e lui, voglio dire.
Vabbé, come dico, in qualche modo sono arrivato alla fine. E la fine è, ed è giusto che sia così, le Displaced Persons, la nascita di Israele, il processo di Norimberga e il processo Eichman. Voglio dire che la "cornice narrativa" è rimasta uguale, Israele è presentato come la riscossa del popolo ebraico dopo il tentato sterminio. E sospetto che questo è esattamente quel che fa infuriare molta gente in Italia, anche quelli che stanno dalla parte giusta, quella che perde le elezioni ogni volta. Oppure ancora più a sinistra.
Poi, in un edificio a parte, l'auditorium in cui si tengono altre commemorazioni, ho visto una mostra. Questa. Sono i volti di musulmani balcanici. Albanesi, per la precisione. Ognuno di loro, decenni fa, ha salvato degli esseri umani, degli ebrei. C'erano delle cuffie, si poteva ascoltare una specie di colonna sonora. E così ho sentito la voce di un signore musulmano, che tra l'altro assomigliava in maniera impressionante a quegli "albanesi" che in Italia sono sinonimo di delinquente (gli occhi azzurri, il viso squadrato). E diceva certo che li abbiamo nascosti. A rischio delle nostre vite, certo. E se capita lo faremo ancora. Ecco, io lì ho pensato alle guerre che hanno devastato i Balcani quando io finivo l'Università e iniziavo a pensare a quel bellissimo mestiere che ha a che fare con altre guerre e mi rendevo conto di essere nato e cresciuto in un frammento di spazio e di tempo che è molto fortunato. E' lì che non mi sono più trattenuto.
Poi mia moglie ed io abbiamo cercato nell'elenco dei giusti tra le nazioni un paio di nomi, che qui non posso riportare e abbiamo fantasticato su altri nomi di giusti che non si potranno dire mai. L'elenco dei nomi dei giusti, di quelli che si conoscono, voglio dire, sta scolpito su delle lapidi, che per trovarle devi percorrere un bosco e, come forse saprete, ogni albero piantato in quel bosco ricorda uno dei giusti tra le nazioni e questi alberi, che si spera cresceranno, formano un bosco che uno vorrebbe più fitto.

Questa è una foto scattata dentro quel bosco e questo è un albero che non cresce. Dentro il tronco si è nascosto un ebreo che fuggiva alle marce della morte. Lui ce la ha fatta.

giovedì, gennaio 17, 2008

klezmer in Giappone

Tazy mi ha fatto scoprire questo gruppo klezmer di Osaka.

mercoledì, gennaio 16, 2008

למה? ככה

Ieri i missili Qassam hanno ucciso un ragazzo equadoregno. Si chiamava Carlos Chavez. I Qassam sono stati rivendicati da tre organizzazioni terroristiche, tra cui una legata ad Hamas. Tutti sanno chi era Rachel Corrie, mentre si farà fatica a ricordarsi di Carlos Chavez.
Quando vivevo in Italia notizie del genere mi facevano bollire di rabbia, scrivevo ovunque lunghi messaggi su questa disparità di trattamento. Come se i sogni di Rachel Corrie avessero qualcosa di più nobile e degno di quelli di Carlos Chavez: chiedevo il perché, mi arrabbiavo per il come. Ora che vivo in Israele sono domande che non faccio più. Ad ogni למה?, perché? in Israele si risponde ככה Perché è così.
E qui vorrei scrivere qualcosa sul bel sogno di un mondo senza razzismo e senza antisemitismo ma, scusate, non mi viene. E' un sogno che non ho più. .למה? ככה
Attacco qua di seguito un breve articolo di Ami Isseroff

A Rachel Corrie nobody will talk about
Today a man who came to work in peace, to help realize the dream of an egalitarian socialist society, or perhaps just to have a new experience, was murdered by Arab snipers. His death was hardly noticed, it seems.
A few years ago Rachel Corrie came to Israel to defend terrorists from "Zionist aggressors." She was killed by accident while trying to stop a bulldozer from destroying a building used for smuggling or terror attacks. Her death was trumpeted all over the world as an example of Zionist mentality. We know who she is and what she looked like and why she claimed to have come to Israel. We knew all about her views of the oppressive and evil Zionists.
Today's victim was a righteous victim. He was murdered while planting potato seeds on a communal farm insider Israel. Carlos Chavez was not a reactionary imperialist warmonger illegal settler messianic fanatic - just a man growing food in a communal farm. For whatever reasons, he was planting potato seeds, not seeds of hatred.
For idealistic or frivolous or random reasons, Carlos Chavez came here to help us and be with us, and he paid for it with his life. It is wrong perhaps to ape the path of exploitation of his death for incitement and demonification as Rachel Corrie's "supporters" did. Perhaps there should be no demonstrations about Carlos, and perhaps there should not be any plays about Carlos. Perhaps Carlos was just a fellow looking for an interesting way to spend a few months of his life. Perhaps that is not as praiseworthy as the ideal of helping terrorists. But at least, we should honor our friend who came in peace and died in our war.

lunedì, gennaio 14, 2008

alla fine del mondo svolta a sinistra

"Eravamo tutti dottori? Tutti avvocati? Nessun ciabattino? Nessun mendicante? Tutti amici del re del Marocco, tutti, tutti?? Che vita intensa che aveva questo re, amico di tutti gli ebrei! E allora perché vi hanno sbattuti fuori?!" Nicole, sedici anni (o giù di lì) urla così a sua madre, in una scena di סוף העולם שמולה ("Alla fine del mondo svolta a sinistra"). Lei non lo sa, ma la mamma è ammalata di leucemia. Ma non si deve dire, altrimenti si rovinerà la festa del matrimonio della sorella di Nicole.
Siamo nei primi anni Settanta, "alla fine del mondo" - che in Israele vuol dir quello che a Firenze si dice "tra i bisci e le bodde". Cioé in una delle "nuove città" che Israele nel Negev ha costruito per assorbire i nuovi immigrati. Nicole, di orgine marocchina, è molto amica di Sara, di origine indiana. Marocchini ed indiani, i due gruppi "etnici" non si piacciono, quella che si vede è una specie di guerra di civiltà (francesi contro inglesi), che sembra interrompersi solo per una surreale partita di cricket in mezzo al deserto - e per un più concreto sciopero. La storia del film è la storia di come Sara e Nicole diventano donne -con le ribellioni, le complicità, i sogni e le esplosioni ormonali che accompagnano l'adolescenza. Racconta anche come le due diventano israeliane e finisce quando Sara, la più introversa delle due, parte per il militare portandosi dietro il suo diario, che solo molto più tardi farà leggere all'amica.
Nicole, invece, per il momento non parte. La madre non c'è più. Sul letto di morte dava istruzioni per il suo funerale. Voleva le lamentrici e ha ingaggiato un gruppo di signore berbere. Ma per favore non dite che il mio cous cous era il più buono. Da noi non si mangiava cous cous, ma pasticcio di piccione. Prima di morire devo darti la ricetta. Troi, deux, un, עוד פעם, di nuovo Oh, povera donna, la sua casa era sempre così pulita...
Il film è stato visto anche in Italia, se vi capita non perdetelo.

giovedì, gennaio 10, 2008

magliette









Ieri le strade di Gerusalemme erano deserte. Ho incontrato un vecchietto che diceva: ma che è, Yom Kippur? Gli ho risposto che a Kippur avevamo il Gran Sacerdote, oggi c'è l'imperatore del mondo.



Quella che vedete qui è la sinagoga dei Conservative.

Qualche volta qualcuno degli amici che hanno partecipato alla fondazione delle prime sinagoghe non ortodosse in Italia mi parla dei Conservative con ammirazione, loro sì che hanno saputo coniugare tradizione, valori etici e modernità. Insomma, io qualche riserva ce la ho, sul benvenuto a George Bush a Gerusalemme (e non ad altri capi di Stato passati da queste parti). Siamo andati a farci un giro nella Città Vecchia e guardate un po' cosa ho trovato. Un negozio mette queste magliette in vendita.
Ho l'impressione che la rottura tra ebraismo e sinistra italiana sia una cosa difficilmente recuperabile. Da queste parti si continua ad immaginare Giorgio Napolitano come un alleato di Arafat, non di Israele. Non diverso dalla media dei politici europei, d'altronde (Sarkozy incluso).

Il petrolio è più forte delle affinità ideali, evidentemente. A proposito di affinità ideali, ieri Bush ha parlato del popolo americano e di quello di Israele uniti dalla fede nel libero mercato. E ha anche salutato il presidente di Israele, mr. Ariel Sharon. Queste non sono affinità ideali, questo è il fatto che essendo l'Imperatore del Mondo, questo posto qui, che è più piccolo della Toscana, in fin dei conti non è che gli importi tanto.

cosa c'è che non (mi) va in Moni Ovadia

Moni Ovadia è un buon musicista, appartiene a una generazione che ha vissuto intensamente politica e musica folk e ad un certo punto del suo percorso ha incontrato la musica klezmer. E grazie ai suoi spettacoli, in cui mette insieme vecchie canzoni e barzellette yddish tratte da libri di autori americani, si è costruito una solida fama, che ad un certo punto gli ha pure permesso di entrare in politica. Per il teatro italiano Ovadia è sinonimo di tutto esaurito e i suoi libri sono popolarissimi. Allora cosa c'è che non va?
Detto molto sinceramente. Moni Ovadia per me è un personaggio kitsch. Questo non per via del confine tra kitsch e "autentico", che pure da qualche parte esiste e che credo lui superi. Negli spettacoli di Moni Ovadia il mondo degli shtetl russi e polacchi di un secolo fa, che era caratterizzato dal silenzio, diventa qualcosa di urlato, che lui fa rivivere con la voce di un rabbino Chabad milanese che lui imita (appunto: imita) alla perfezione.
Moni Ovadia, con i suoi personaggi urlati, costruisce ad uso e consumo del pubblico un mondo popolato da rabbini e/o da morti di fame, tutti maschi - fateci caso, le donne sono presenti solo nel ruolo di madre e, qualche volta, di moglie rompicoglioni. Il pubblico apprezza. Apprezza una rappresentazione dell'Ebraismo dell'Europa dell'est in cui sono più o meno assenti tutti quelli che volevano fare degli ebrei un popolo come gli altri: territorialisti, autonomisti e naturalmente i sionisti. Del tutto inesistente è il Betar -il movimento nazionalistico che nel ghetto di Varsavia era maggioritario- proprio come era assente nella storiografia ufficiale israeliana negli anni Cinquanta e Sessanta.
Ovviamente non è colpa di Moni Ovadia se al pubblico italiano piace sentirsi raccontare -in forma di musica o di barzelletta- che la autentica esistenza ebraica è sempre altrove, all'epoca cui risalgono le prime fotografie dei nonni e che la Shoah ci avrebbe fatto fatto irrimediabilmente perdere. Ma non è vero. I hassidim esistono ancora, lo yddish si parla ancora. Sono stati profondamente feriti dalla Shoah (che per loro non è stata la peggiore catastrofe della storia - notizia sensazionale: i hassidim non conoscono Adorno); la Shoah è stata per loro solo una delle molte persecuzioni che il popolo ebraico ha subito. Gli ultraortodossi hanno reagito ricostruendo il loro mondo, che non è affatto "fuori dal tempo", come spesso si dice. Non suonano più (solo) klezmer: esistono musicisti hassid che fanno techno, hip hop, heavy metal, tutto in yddish - al simpatico lettore che mi ha chiesto dove può trovare i dischi di Lipa Schmeltzer, io rispondo di provare su internet e che se cerca con attenzione può trovare di molto.
Moni Ovadia mette in scena una rappresentazione dell'Ebraismo e degli "ebrei veri" che è la stessa dei cappelli neri. Mi spiego: qui a Gerusalemme gli "ebrei veri", quelli che credono alla stessa rappresentazione ovadiana li chiamiamo black-hat, in inglese, perché sono tutti americani (e parlano inglese, non ebraico); black hat non è sinonimo di haredi , ma di haredi "ritornato", cioé nato laico e diventato ad un certo punto ultraosservante, fino a trasferirsi qui.
Evidentemente al pubblico italiano piace questo immaginario dei cappelli neri. Perché? In Italia si parla molto di ebrei particolarmente in riferimento a due argomenti: la Shoah (cioé la memoria) e Israele. Quando i mass media si occupano di spiritualità o di morale, l'unica voce che conta è quella cattolica, che trasforma la spiritualità in morale. Tutte le altre voci sono accessorie: entrate in una libreria, cercate lo scaffale di ebraistica, nove volte su dieci è collocato tra le religioni e sta immediatamente accanto all'ultimo libro del/sul papa. Noi ebrei abbiamo un sacco di belle cose da dire. Per esempio sul rapporto tra modernità e tradizione, o sui diritti dei gay. Ma sembra che in Italia gli ebrei e l'Ebraismo interessino solo per due aspetti della loro storia recente: lo sterminio e Israele.
Che sono, se ci pensate bene, due varianti del tema della colpa. Ché se si parla della Shoah, è quasi meccanico parlare di risarcimenti e di scuse. Se si parla di Israele lo si fa (poco) per difenderne il diritto ad esistere oppure (molto, molto più spesso) per denunciarne le colpe. Parlare delle colpe di uno Stato, secondo me, è qualcosa di paradossale. Gli Stati non sono entità morali. Ma da Israele, siccome è stato fondato da superstiti della Shoah, ci si aspetta un comportamento più morale. E guarda caso se ne constata sempre l'assenza.
Al pubblico italiano che critica Israele, e a cui piace molto il Moni Ovadia che critica Israele, sfugge il fatto che essere stati fondati da superstiti della Shoah non significa assolutamente nulla sul piano morale, men che meno l'obbligo di osservare un comportamento più morale - perché se uno ha subito delle violenze sessuali mica diventa per forza uno psicologo. Ma questo, dicono, dovrebbe valere per le persone normali. Gli ebrei, quelli veri, che stanno nel loro altrove, devono comportarsi in maniera diversa. Se non lo fanno, ed è del tutto evidente che non lo fanno in Israele, che è uno Stato normale, dove gli ebrei di solito, quando sono feriti, sanguinano come tutti gli altri (giusto per citare uno che sull'antisemitsmo la sapeva lunga), se non lo fanno, dicevo, allora viene persa la Memoria della Shoah.
Scusate, non ci sto. Non ci sto a questo gioco in cui gli ebrei morti hanno sempre l'ultima parola rispetto agli ebrei vivi. Non ci sto a questo gioco secondo cui l'unico modo di vivere l'Ebraismo è vivere in un universo parallelo e irraggiungibile, penso -come Jabotinsky, sì- che l'Ebraismo sia qualcosa di più delle regole della kasherut e che la nostra tradizione abbia in sé dei forti valori: non opprimere l'orfano e lo straniero, per esempio - che ha tutto il diritto di rimanere straniero. Possiamo persino vivere secondo quei princìpi senza costruire intorno a noi delle barriere. O addirittura influire in senso positivo la società nella quale viviamo, senza bisogno di scomodare i morti della Shoah ogni volta che ci sono le elezioni.
In breve, di Moni Ovadia non mi piacciono gli ebrei "di altrove" che lui si inventa e che esistono solo nello spazio della rappresentazione, per compiacere il suo pubblico, il quale tra ebrei e persecutori (arabi, ultimamente) di solito mantiene una posizione terza, o peggio ne capisce le ragioni. Un pubblico pronto a identificarsi con questi ebrei immaginati, che dal loro altrove gettano disapprovazione sul legame tra Shoah e Israele. O su Israele e basta.

martedì, gennaio 08, 2008

che c'è in città

Oggi ho visto una mostra di questo signore qua, la cui famiglia sta a Gerusalemme da qualcosa come cinque generazioni. E mi è piaciuta molto. Qui trovate altri suoi lavori. C'è qualcosa di Chagall, c'è molto surrealismo, c'è persino un po di liberty.

staccarsi Milano di dosso

Mi collego ad Internet ogni mattina. Leggo le pagine web di quotidiani israeliani, americani, inglesi ed italiani. Di solito vado oltre la prima pagina per un paio di click. Di quel che succede in Italia seguo poco. Di quel che succede nella mia ex città, niente. Spero che un giorno, quando qualcuno mi chiederà il nome del sindaco di Milano, io non saprò cosa rispondere. Che Milano sia diventata brutta ed arrogante non è solo un luogo comune. E' vero. Non conosco nessuno che ne provi nostalgia. Nessuno credo scriverà mai più canzoni come questa. E con questo finisce la mia pappardella introduttiva. Perché non mi andava di scivere qualcosa tipo: ho trovato su Youtube questo gioiello, un videoclip di Fortis firmato Andrea Pazienza, e guardate che bello. Non mi andava perché il nome Milano e l'aggettivo bello non devono stare in una frase che sia riconducibile a me.


sabato, gennaio 05, 2008

danze hassidiche

No, dai: possibile che io sia l'unico ebreo italiano a cui piace Lipa Schmeltzer? Ma vi meritate Moni Ovadia, vi meritate.

giovedì, gennaio 03, 2008

e son cose, eh



Michelangelo Antonioni che tesse le lodi di un film antisemita. Italia, 1940. Notizia completa qui.

Mashiah! Mashiah! oyoyoyoyoy

Le storie di conversione, di qualunque tipo sia la conversione, mi piacciono davvero poco. Cè qualcosa di pornografico nell'esibizione di percorsi intimi e personali. E la pornografia -dice un mio amico- è come l'Ebraismo, non esiste una definizione accettata da tutti ma capisci quando ti ci trovi davanti. Quando so che in Italia c'è chi utilizza le storie personali di conversioni all'Ebraismo tramite Bet Din Reform come uno dei sintomi del successo dei Reform mi inc...quieto come una bestia, prima di tutto perché credo che dopo la conversione uno è ebreo punto (non ebreo convertito), secondo perché -di nuovo- si tratta di una esibizione di faccende intime. O, peggio, di una strumentalizzazione di faccende private per ottenere un beneficio pubblico: "Ecco, siamo ebrei anche noi guardate cosa è successo a lui che non lo era!" (sottinteso: e anche adesso non sarà mai come noi).
E poi non vedo cosa ci sia di straordinario nel fatto che le conversioni dei Reform sono riconosciute valide dallo Stato di Israele ai fini della Legge del Ritorno - straordinaria semmai è quella angoscia di non essere riconosciuti" che ahimé è una caratteristica ormai strutturale degli ebrei italiani. "Ah, vai in una sinagoga sefardita? - mi chiedeva un amico mesi fa - ma ti riconoscono?".
Lo avevo notato negli ultimi anni di permanenza in Italia, noi ebrei italiani appena ci troviamo in presenza di un altro ebreo iniziamo a giustificarci, a chiedere perdono di qualche non osservanza. Come se la Torah fosse in cielo (cosa che non è, azz!). Ancora non so se sia una buona idea offrire -diciamo, sul mercato religioso o delle identità- una possibilità di essere riconosciuti come ebrei. Chabad ci hanno fatto una fortuna, con la loro identità evidente e il loro modello intransigente di osservanza. Intransigente per gli standard italiani, intendo dire: quando si arriva a faccende come il vestiario ed il cibo, l'Italia è una società molto conformista, che emargina rapidamente chi compie scelte differenti da quella che viene considerata la norma. Il look Chabad è una via di mezzo tra quello estremo (e antimoderno) di altre sette hassidiche e la assenza di segni esteriori di indentificazione ebraica, che è caratteristica della modernità. Però in Italia è considerato estremamente ebraico.
Tutto ciò premesso, sto per racconarvi due storie di conversione che, per ora, non sono affatto finite bene. La prima è quella di una signora italiana, convertita da un Bet Din ortodosso, molto attiva nel mondo degli ortodossi, che si è vista rifiutare la cittadinanza israeliana dalle autorità competenti. Vicenda triste davvero, ma che dovrebbe fare riflettere tutti quelli che considerano gli ortodossi israeliani più autentici dei Reform americani - i quali non incontrano di questi problemi di riconoscimento quando fanno alya.
La seconda è quella di un tale che si era preparato alla conversione studiando con gli autentici Lubavitch, praticando con peculiare entusiasmo tutte le mitzwot possibili e immaginabili. Durante il colloquio con il Bet Din gli hanno chiesto se crede che il Rebbe fosse Mashiach, lui ha risposto: Sì, certo, così mi è stato insegnato e la conversione è stata rifiutata. E anche questa è una faccenda che dovrebbe fare riflettere i feticisti della autenticità.
Molto probabilmente queste due notizie non verranno menzionate dalla stampa ebraica italiana, per evitare le furibonde reazioni di destra (quelli che urlano che lo Stato di Israele ha tradito la halakhà) o di sinistra - quelli che piangono che lo Stato di Israele ha tradito gli ideali del sionismo-socialista-e-pacifista. Per non parlare di quelli che ritengono che il vero comunismo si trova negli shtetl e che in queste due notizie troveranno la conferma che il mondo di qua è irrimediabilente corrotto. Che volete che vi dica, l'incontro dei fondamentalisti (religiosi o politici) con quella brutta cosa che si chiama realtà è sempre una faccenda dolorosa.