lunedì, luglio 30, 2007

affinità


Mi parlano da settimane della sinagoga Toldos Aharon, centro di un gruppo hassidico, che sta ovviamente a Meah Shearim. Decido di farci un salto e di provare il mio ebraico tra questi signori vestiti di nero (o di grigio).
Vediamo come vanno le cose, se di Shabbat si può venire, è gente che prega con molto fervore, magari iniziano Shabbat qualche ora prima, va a sapé. Chiediamo e troviamo informazioni; finiamo in un ampio cortile in fondo a un vicolo. Troneggia l'enorme sinagoga. Slicha adonì (scusi) e signori più anziani tirano diritto, uno giovane si ferma efshar ledaber anglit (possiamo parlare in inglese) e ovviamente lo, cioé no. E proviamo l'ebraico. A che ora è la Kabbalat Shabbat. Dieci minuti prima dell'accensione delle candele. Efshar lehitpallel, possiamo venire a dire la tefillah. Ken, ma le donne no. Come sarebbe a dire le donne no, non avete la ezrat nashim, lo spazio riservato alle donne, Ken certo che lo abbiamo, ma di sera le donne non possono entrare. Toda, grazie lehiteraot - è la stessa logica della mechitza, dopo tutto.
Perché stupirsi. E' ovvio, dico tra me e me, le donne, il buio, le tentazioni, vabbé questi nemmeno hanno la radio, sono gente pia, il loro Dio è un Padre, va da sé che siano sessuofobi, cioé, che abbiano quella certa concezione della donna, tipo serpente tentatore, che a me mi puzza di clero -guarda che caso, chi ama i cattolici fondamentalisti stravede anche per questi signori. Mentre ce ne usciamo dal cortile vediamo uno striscione in inglese che campeggi all'inizio del vicolo. Chiede una forza di protezione internazionale contro la crudele oppressione sionista. Ah già, questi qua che pensano che la donna è sempre un po' puttana, sono degli ebrei antisionisti. L'esistenza di uno Stato ebraico, dove le donne votano e fanno pure il militare, ai loro occhi è una specie di bestemmia. Come per questo signore qui, quello che non è ancora professore.

domenica, luglio 29, 2007

עם ישראל חי

In queste settimane mi è capitato di conoscere personaggi che fanno la storia. Uno di loro è ufficiale dell'esercito israeliano e studente rabbino progressivo. E mi ha fatto un regalo di cui andrò sempre orgoglioso. Questo.

So che sono argomenti complessi, e prometto che ne parleremo, quando sarò meno emozionato. Per ora questa dichiaro questa copia del Tanakh la mia favorita di sempre.

sabato, luglio 28, 2007

contato a minyan

Mi capita raramente di fare Shabbat in una sinagoga ortodossa. Ma siccome siamo a Gerusalemme e siamo cresciuti in Italia, una visita al Tempio italiano ci voleva. Così venerdì sera ci siam stati per la Kabbalat Shabbat e quel che c'è intorno. E' una vera sinagoga italiana, viene da pensare mentre si sta aspettando che si formi il minyan. Per fortuna nessuno dice nulla alle signore col passeggino e i bambini si possono prendere in braccio senza herem. Ho trovato sorrisi e anche simpatia per noi progressivi (se non ho capito male mi hanno incluso nel minyan); sarà che non c'era il rabbino - questa dialettica Comunità-rabbino, con il rav nel ruolo del no-man, custode di divieti da aggirare mi sembra sempre più uno dei tratti caratteristici dell'Ebraismo italiano.
Mi è venuto da pensare che se i haredim rappresentano il Medio Evo dell'Ebraismo, la neo-ortodossia è in preda a una ondata di Controriforma e l'ortodossia italiana è in piena era Rococò, con tanti leziosi svolazzi (halakhici e vocalici) al fondo, un po' stucchevoli. Gli stucchi della sinagoga però sono bellissimi. Ci ha fatto piacere sentire le melodie note. Ma la separazione tra uomini e donne, con mia moglie lassù, in piccionaia dietro una grata (e il pensiero che pure alle mie figlie potrebbe toccare qualcosa del genere) era intollerabile. Una buona metà dello Shabbat mi veniva tolta, mentre si stava "tra uomini" - neanche così giovani, purtroppo. E così, la mattina dopo eravamo alla nostra sinagoga, con strumenti musicali e una signora non giovanissima che, sopraffatta dal numero dei fedeli (superiore, come spesso accade, alla aspettative) è corsa a fare delle fotocopie della tefillah conclusiva e le ha portate ai nuovi venuti, E nel frattempo si è pure fatta un caffé, senza che rabbini e rabbine avessero niente da ridire. Siamo pure saliti a Sefer.

mercoledì, luglio 25, 2007

Netanyahu

Il faccione di Bibi inizia a campeggiare dai manifesti, così ho fatto incursione in un gruppo di discussione italiano che dovrebbe dibattere la politica internazionale. E ho posto la questione: su cosa si basa il successo di Netanyahu? In Italia ci si diletta ad immaginare che lui sia parte (o forse addirittura a capo) di una specie di Spectre che unisce tutto quello che è antipatico a Diliberto: i fondamentalismi protestanti, i neocon, i sionisti... La risposta è molto più semplice: in questo Paese Bibi è popolare perché la sua (piaccia o meno) è una delle famiglie fondatrici. Da questo punto di vista non è diverso dal santificato Ytzhak Rabin; in questo Paese piace sentirsi parte di una stessa famiglia - per questo motivo non è un luogo per permalosi. Io mi ci trovo benissimo, ma ci sono americani che vanno in terapia dopo la quinta volta che un locale gli grida "rega!" perché vuol passare col rosso (il locale, non l'americano).
Bibi Netanyahu è soprattutto il fratello di Ioni Netanyahu, un eroe nazionale, ammirato da tutte le parti politiche, che ha rinunciato ad una brillante carriera accademica a Harvard per fare il militare e difendere il popolo di Israele. E' poi tragicamente morto a trent'anni ad Entebbe mentre cercava di liberare degli ebrei (attenzione: non degli israeliani, degli ebrei) dalle grinfie della sbirraglia antisemita, che aveva diviso i prigionieri tra ebrei e non ebrei. seguendo una logica che porterà alla morte di Leon Klinghoffer, superstite della Shoah, i cui assassini trovarono ricetto sul suolo italiano.
Quella sbirraglia antisemita era allora molto popolare nella sinistra italiana (e forse lo è ancora, ma di questo parlerò un'altra volta). Personalmente sono convinto che Ioni Netanyahu sia un eroe della lotta contro l'antisemitismo e il pregiudizio razzista - guardatevi questo sito e capirete cosa voglio dire. Le lettere di Ioni alla famiglia sono un documento straordinario del suo amore per la vita e del suo desiderio di non essere un "ebreo errante", in attesa della prossima persecuzione.
Ma in rete ci sono alcuni che, come bestie cornute alla vista del rosso, non sanno trattenersi e basta a loro vedere qualcosa di israeliano che devono dar fondo al complottismo. Ho così appreso che secondo i soliti documenti enonimi e riservati, tutta l'operazione Entebbe sarebbe avvenuta per le trame del Mossad. Non solo la liberazione degli ostaggi, anche il rapimento. Ora, per quale ragione uno Stato dovrebbe mandare a farsi ammazzare i suoi soldati migliori, in un periodo in cui le sue fontiere sono tutt'altro che sicure, è un interrogativo che non sfora la mente dei complottisti, perché conoscono già la risposta: Israele voleva espandersi, nientemeno, in Africa e per poterlo fare aveva bisogno di truppe agguerrite che gli muovessero contro.
Come e in che modo questa plot theory sulla morte di Ioni Netanyahu riesca a spiegare il successo elettorale del fratello (che era la mia domanda), davvero mi sfugge. Io ho fatto una domanda, ho suggerito una risposta, ed il primo, immediato, intervento non è stato per suggerire una risposta alternativa, ma per dire roba che non c'entra una mazza. E' davvero sorprendente come l'opinione degli israeliani non interessi affatto a chi vuole discettare sul Medio Oriente. Sento, in altre parle, una gran puzza di colonialismo e di paternalismo, come se lo Stato degli ebrei fosse abitato da bambinoni irresponsabili, le cui parole non meritano di essere ascoltate e che hanno sempre bisogno di qualcuno per fare loro la predica. Che è poi, guarda che strano, il modo in cui la Chiesa cattolica pre Vaticano Secondo ha sempre guardato al popolo ebraico. Gente che va aiutata "con dolcezza e riguardo" (cioé con la privazione dei diritti e non con il massacro) a scegliere la vera fede, a vedere la verità.

martedì, luglio 24, 2007

goem naches

A Tisha beAv, le vie della città vecchia si sono riempite di gente fino a molto tardi, mentre nelle sinagoghe si leggeva Eicha a ciclo continuo. Per il gerosolimitano medio la sera di Tisha beAv è una gigantesca passeggiata intervallata da soste accanto ad uno dei minyan di lettura per "uscire d'obbligo" (come si dice in Italia) e riprendere poi a girovagare ed incontrare amici - o farsene di nuovi. I gruppetti di destra, la cui propaganda mi aveva infastidito, hanno berciato qualcosa nella completa indifferenza dei passanti.
Tisha beAv, per chi non lo sapesse, commemora le sventure accadute al popolo ebraico; la distruzione del Tempio, la cacciata dalla Spagna, la Prima Guerra Mondiale, la conferenza di Wansee sono accadute intorno a questa data. Parliamo quindi di Shoah.
Stando in contatto con amici italiani, mi hanno informato che Giorgio Bocca ha scritto l'ennesima cappellata su Israele, cappellata che è abbastanza facile mettere in relazione alle frottole che scriveva durante la Guerra dei Sei Giorni, ai suoi giovanli elogi dell'antisemitismo nazista, al suo rancore contro chi glielo viene a ricordare (rancore colmo di allusioni allo strapotere degli ebrei nei media). Giorgio Bocca non è quindi un bel personaggio, anzi diciamo pure che è piuttosto rappresentativo degli intellettuali italiani della sua generazione.
Detto tutto questo, sono sobbalzato dalla sedia quando ho letto che c'è chi lo considera un peccatore, anzi uno che ha commesso "errori non riscattabili".
Secondo la nostra tradizione non si può giudicar qualcuno se non si vive nella stessa situazione. Se l' errore-non-riscattabile di Giorgio Bocca è il famoso (ed infame) trafiletto sui Protocolli, bisognerebbe essere certi che, nelle medesime condizioni, non ci si comporterebbe come lui; che all'epoca era un giovane provinciale che voleva trovare lavoro in un giornale di provincia. Siccome viviamo nel 2000 e rotti, e non in un sistema totalitario come negli anni 30 e 40, è azzardato per chiunque affermare che al posto di Bocca avrebbe scritto cose diverse, e magari più nobili, per poi non vederse pubblcare e trovare il proprio nome nella lista dei nemici di qualche gerarca. Ovviamente sarebbe stato giusto che tutti coloro che hanno contribuito ad alimentare la macchina di odio, fossero chiamati a rispondere delle loro azioni. Così non è stato per i giornalisti, e nemmeno per gli universitari, perché l'Italia aveva una gan voglia di dimenticare. Giudizio che avrebbe dato la possibilità, appunto, di riscattarsi.
Dal momento che questo giudizio non c'è stato, fondamentalmente per assenza di giudici, c'è qualcuno che vuole fare il supplente. Che si improvvisa cioé giudice e decide che esistono errori riscattabili ed errori non riscattabili; è praticamente, la distinzione cattolica tra il peccato venale e quello mortale, che necessita dell'umiliazione della confessione per essere perdonato. In pratica, chi decide che esistono "errori non riscattabili" si mette nientemeno che nei panni di un Dio che non perdona (cioé quello dell'Antico Testamento, per come lo leggono i cattolici).
E veniamo al punto: per una stagione (facciamo fino a tre-quattro anni fa) la presenza pubblica degli ebrei in Italia è venuta legandosi sempre più con il tema della memoria della Shoah. I dirigenti delle organizzazioni ebraiche si sono inventati il ruolo di custodi della memoria, che di per sé è una cosa degnissima e giusta. Ma non può esaurire tutto l'Ebraismo, che difatti ha da dire su una moltitudine di temi (sui diritti dei gay, per dire). Senonché le posizioni ebraiche sulla predetta moltitudine di temi sono quantomeno varie, e per farvi spazio nel discorso pubblico occorrerebbe rompere il monopolio ortodosso. Impossibilitati a parlare di altro, i dirigenti delle Comunità hanno parlato soprattutto di Memoria, e siccome il mondo dei media è quello che è, il viaggio di Fini in Israele, accompagnato da Amos Luzzatto, ha segnato lo sdoganamento definitivo del già Partito Fascista. Il problema non è per me che questo sdoganamento è stato prematuro, il problema è che quel ruolo di doganiere non dovevano rivestirlo gli ebrei.
Perché da allora in poi la divisa del doganiere, con annesso elenco dei buoni e dei cattivi, è diventata parte del corredo pubblico di ogni ebreo. O, peggio, di chiunque voglia proclamarsi tale. Il punto è che alla folla che commemora le persecuzioni con queste lunghe (e vitali) passeggiate nelle vie di Gerusalemme, non importa assolutamente nulla di tale proclami. Che rientrano a buon titolo nella categoria dei goem naches, roba fatta per intrattenere chi ebreo non è. Recitando la parte che il pubblico si aspetta che gli ebrei recitino. E, a questo punto, sarà il digiuno, mi viene da sbadigliare.

lunedì, luglio 23, 2007

Tisha beAv

Questa sera è Tisha beAv; ci sono alcuni gruppi i destra che hanno organizzato una marcia intorno alle mura di Gerusalemme. L'idea è stata presa paro dai pacifisti, che un paio di volte hanno provato a fare un girotondo intorno alle mura. In un Paese mediterraneo non è sempre chiaro dove stia il confine tra politica e religione, però in questi casi ho la sensazione che il confine sia stato superato, e la cosa mi infastidisce (di Peace Now, per esempio, mi infastidisce il logo, per chi non lo sapesse la parola Shalom è scritta imitando i caratteri tradizionali del Tanach).

Che cosa fare per Tisha beAv è per noi ebrei moderni una questione complessa. In passato c'era anche chi diceva che la distruzione di Gerusalemme è in realtà una occasione da festeggiare, perché segnò l'inizio della Diaspora, che ha portato la civiltà ebraica al suo splendore. E poi ci sono quelli che dicono che ormai Gerusalemme è ritornata al popolo ebraico, quindi non avrebbe più senso piangerne la perdita. L'opinione generale però è che questa ricorrenza ricorda le tragedie avvenute al popolo ebraico ve al kol bnei adam (sia la cacciata degli ebrei dalla Spagna, sia la prima guerra mondiale sono state decretate il 9 di Av).
Stasera e domani andrò a funzioni in cui, oltre a dire la tefilah per questo giorno luttuoso e a leggere parti di Echà, o Lamentazioni, come da tradizione, il servizio comprenderà anche tehillim, con accompagnamento di chitarra e poesie di autori ebrei sui temi della distruzione e della speranza - la nostra letteratura comprende una poderosa quantità di simili composizioni. E faremo un giro sulla mura di Gerusalemme.
Tzum kal, che il digiuno sia lieve. Ci si risente.

sabato, luglio 21, 2007

culturalshock2


"La maggioranza dei tuoi amici sono ebrei?" I miei compagni di studio, americani, rispondono di . Gli israeliani, idem. Noi ebrei europei, prevalentemente, rispondiamo di no. Noi italiani rispondiamo sicuramente no. Non c'è niente di male o di drammatico in nessuna delle due risposte, che sono il riflesso di storie ebraiche diverse. La nostra comprende anche la Shoah, quella israeliana supera la Shoah, quella americana ... vabbé ne parlo un'altra volta.
Qui voglio dire che è diverso il tipo di Ebraismo. Persino alle stesse parole si dà un significato diverso. Una ragazza che suona la chitarra dopo il kaddish per gli americani è ritorno alla tradizione, perché è stato detto il kaddish (quindi la tradizione c'è), per noi italiani suona come un pelouche piazzato detro l'Aron haKodesh. Poi ti capita di esserci e ti ritrovi a piangere senza accorgertene, perché così deve essere la commemorazione di qualcuno che non c'è più. Un'emozione che ti avvolge, e ti resta solo da chiederti il perché, con malinconia.
Qua a Gerusalemme c'è una sinagoga italiana; per entrare, non sto scherzando, è obbligatorio l'abito elegante. Nelle sinagoghe ricostruzioniste che ho visitato questo Shabbat (azz, quanti bambini) si entra invece vestiti come tutti gli israeliani, tipo artista anni Settanta - io ho indosso roba che ho preso al mercato in Italia, e mi viene da sorridere quando dicono che sono cool, solo perché sono italiano.

domenica, luglio 15, 2007

culturalshock1

Gli studenti del primo anno di questo College sono una cinquantina. Tranne me e tre tedeschi, sono tutti americani (vabbé, c’è un canadese) e hanno tutti intenzione di lavorare (come rabbini o cantori) negli States, quando avranno finito gli studi, tra quattro o cinque anni. In questa cinquantina di americani ci sono, se non ho capito male, tre donne lesbiche. Forse ce ne è qualcun altra, ma queste sono quelle che son qua con la propria “significant other”. L’inglese è la lingua che è, e quando somebody ti parla del suo partner tu non riesci a dargli un genere, per cui potrebbero anche essere di più. Ripeto: almeno tre lesbiche in un gruppo di cinquanta futuri rabbini e simili.
Questo significa che tra qualche anno una percentuale significativa dei rabbini americani, la più grande comunità ebraica del mondo, saranno gay o lesbiche, sposate (sposati) con i relativi partner, e -sissignori- con tanto di prole: una di queste coppie ha appunto un bimbo, che NON è stato adottato. Vi assicuro che quando una donna allatta il figlio non ti chiedi se lei è eterosessuale. Vedi solo una donna che allatta un bambino: ci vuole il furore ideologico dei Ratzinger per scorgervi un pericolo per i valori dell’Occidente.
Ripeto: tra pochi anni una percentuale significativa dei leader religiosi dell’ebraismo americano saranno gay. E quando si parla di leader religiosi, stiamo parlando di un modello di ruolo, non di un sacerdote consacrato da una gerarchia, cui deve rendere conto. Il rabbino è essenzialmente responsabile di fronte alla propria Comunità; e se sostiene di fare “la volontà di Dio” – come se parlasse al telefono con il Padreterno tutte le mattine- fa ridere o fa preoccupare. Il rabbino deve conquistarsi il consenso della sua comunità, e allo stesso tempo è un modello di vita (e di osservanza) ebraica, perché l’Ebraismo si insegna innanzitutto con l’esempio - ecco perché un rabbino sposato trova più facilmente lavoro di uno single. Ora, l’Ebraismo non è solo una roba che si studia: si viene ammessi ai collegi rabbinici (queli seri, dico, non quelli che fanno i corsi per corrispondenza) non solo sulla base della preparazione, ma anche della personalità dell’aspirante candidato. Voglio dire che nessuna di queste studentesse ha mai nascosto le proprie scelte sessuali o in fatto di relazioni. E siccome stiamo parlando di Ebraismo americano, conviene chiairire che non stiamo parlando solo di metropoli come San Francisco o New York, ma anche (anzi, soprattutto) di realtà più provinciali, quali Minneapolis, Atlanta, Cincinnati. Tranquille comunità (se per tranquilla intendiamo una sinagoga in cui ogni sabato mattina c’è almeno un bar mitzwah) composte da qualche migliaio di persone. (Nota per gli italiani che leggono: quanto tempo è passato dall’ultimo bar mitzwah? E da quello immediatamente precedente?)

Il che porta a tre osservazioni. La prima è che la questione dei diritti dei gay viene presa molto seriamente dai comitati di ammissione ai collegi rabbinici USA, espressione della leadership dell’Ebraismo americano -non solo dai Reform
La seconda è che, mentre in Italia abbiamo per ministro degli esteri un sedicente laico che è andato ad omaggiare un prelato franchista, fondatore dell’Opus Dei, dall’altra parte dell’Oceano, perlomeno tra gli ebrei, il legame tra spiritualità e politica ha tutto un altro significato.
La terza è che alla corrente maggioritaria nella più numerosa ed importante comunità ebraica del mondo importa ben poco di venir riconosciuti dalla minoranza ortodossa. Curioso, vero?

shel zahav

Gerusalemme è bellissima; c’è anche una vita notturna. Appena fuori delle mura è stato costruito un complesso di negozi di vestiti e locali fashion, ben mimettizate nella bella pietra di queste parti. Ci passeggiano hilonim (israeliani secolari), haredim, donne arabe velate e no, e anche coppie gay. Insomma la stessa gente che vedi per le strade del centro. Forse è vero che lo sviluppo economico è la ricetta per fermare la guerra di religione. In ogni caso fa piacere vedere come la crisi economica sia ormai alle spalle. E che la città si sia riempita di gatti, ed i gatti, si sa, amano la pace.
C ‘è quella frase che ho letta in questi giorni. I traslochi ti portano nelle mani roba che non pensavi nemmeno di avere. Così mi sono ritrovato a leggere gli atti di due colloqui tra intellettuali ebrei europei, organizzati dalla rivista European Judaism.
Nel 1971, a Parigi, Piotr Rawicz, uno scrittore, spiegava che come ebreo francese aveva sempre trovato più affascinante il Non Essere, che l’Essere. Nozione forse cabalistica. C’è, dice, nell’Essere, un nonsoché di banale. In Israele è disorientato, perplesso, perché sente più forte l’essere ebreo (e non il non-essere chessò, cattolico, o comunista). L’anno dopo, a Roma, Aldo Rosselli spiegava che in Italia un gran numero di personalità pubbliche sono stati ebrei, ma che il loro ebraismo era una faccenda personale, intima, privata. Qualcosa che è privo di conseguenze sulla loro vita culturale e le loro attività. Qualcosa che, visto dal campus di Gerusalemme dello Hebrew Union College, assomiglia tanto al non essere.
Al Klita, centro di assorbimento per immigrati, è volata qualche battuta. I funzionari ci chiedevano ma karah be Italia, perché nelle ultime settimane c’è un aumento di olim, di ebrei che se ne vanno dall’Italia per vivere in Israele. Noi ebrei italiani siamo in fuga dall’Italia, a quanto pare. Perché?
Per l’antisemitismo (pardòn: la serrata critica alle posizioni pubbliche degli esponenti dell’Ebraismo italiano) di chi siede al ministero degli esteri (e si guarda bene dal fare simili critiche agli esponenti di altre religioni)? Non credo. Credo, piuttosto, che siamo in fuga dal non essere.
Da quella condizione diasporica e nevrotica secondo cui l’ebraismo è qualcosa che deve essere giustificato, spiegato, se possibile minimizzato. Mai vissuto per sé stesso, sempre messo in relazione ad altro. Sono ebreo E comunista - o di sinistra, o del partito democratico (non ti è mai venuto in mente che anche prima dell’Illuminismo il nesso tra religione e potere era già sato scoperto e sbeffeggiato?). Sono ebreo MA lavoro di sabato, mangio quel che mi va (contento per te, che genere di ebraismo hai trasmesso ai tuoi figli?). Sono ebreo MA per me si può dividere Gerusalemme perché l’ONU eccetera (vai a spiegarlo agli abitanti di Sarajevo). Sono ebreo MA Hitler ha ucciso anche i non ebrei (quale nobiltà di animo, nel ricordarlo; e soprattutto nel dimenticare che li ha uccisi PERCHE’ avevano caratteristiche, secondo lui, comuni agli ebrei). Sono ebreo MA per me tutte le religioni sono uguali - io invece sono ebreo e proprio PERCHE’ lo sono ritengo che tutte le religioni che sollevino la dignità degli esseri umani siano equivalenti e ammirevoli, tanto quanto l’assenza di religione, che è poi fede nel progresso. Per cui ho ragioni piuttosto forti contro il velo, la poligamia e l’infibulazione. E a favore del progresso.
Da questo ebraismo mutilato e mimetizzato si fugge. Qui, infatti, si sta meglio. A viso aperto e, se e quando ne hai voglia, con la kippa sulla testa.

Mi è gradito rinnovare ai fans dell’on. D’Alema che mi stanno tempestando di comunicazioni l’invito a venire a trovarmi a Gerusalemme. Sempre abbiano il coraggio di farsi vedere.

martedì, luglio 03, 2007

sull'immaginario rossobruno

Un paio di note a margine del bellissimo articolo di Uriel sui rossobruni e le astrazioni della politica. La storia ideologica dei rossobruni non inizia, cioé, con le recenti circonvoluzioni di Costanzo Preve e del campo antimperialista. Pietro Ingrao, per esempio, è stato uno dei giovani fascisti più brillanti, ed in politica internazionale il fascismo portava avanti un discorso diciamo così antimperialista, all'interno del quale la perfida Albione godeva degli attributi che gli ingraiani di oggi riservano agli USA, pure loro protestanti (ed ebraici, da quando i posti chiave sono occupati dalla lobby neoconplutosionista). I valori in base ai quali Dario Fo si permette di gettare fango complottista sullo Stato degli ebrei ed il sionismo sono gli stessi che lo spingevano ad azioni ben note durante la Seconda Guerra Mondiale. Uno dei miei nonni è stato partigiano nella Repubblica dell'Ossola, dove poi ho passato le estati della mia adolescenza- e guarda che strano il mio gruppo di amici era composto di nipoti di partigiani, mentre quelli con cui ci si scazzottava più volentieri erano i nipoti dei fascisti (di quelli rimasti vivi, voglio dire: perché con un solo gesto contro i tedeschi avevano riscattato un ventennio di servilismi). Posso assicurare che ci sono precise ragioni per cui Dario Fo non si è mai fatto vedere nelle valli che ha percorso da giovane, "a cercare la bella morte", assieme a quei fascisti che continuarono nel loro servilismo.
Dario Fo e Pietro Ingrao sono solo due esempi, e neanche dei più disgustosi, della fauna che popola il pianeta della sovrapposizioni tra fascismo e terzomondismo. Un pianeta che merita di essere indagato, perché sotto le biografie c'è un terreno ideologico comune, fatto di esaltazione della austera e semplice Italia rurale contrapposta alla metropoli imperiale e corruttrice. Un quadro di valori che è stato tirato in ballo anche per fondare la politica estera, che novità, filoaraba. Ma che soprattutto ha fondato un immaginario fatto di opposizioni, Così se la parte del Bene è occupata dal mito dell'idillio immutabile (e gerarchicamente ordinato), la parte del Male è occupata dall'imperialismo (attenzione: da una parte degli uomini, dall'altra una ideologia) che distrugge con il denaro i legami ancestrali tra l'individuo e la terra. Dentro questo quadro ideologico gli ebrei sono, più o meno come tutto il resto, un simbolo. Ma sono un simbolo ambiguo.
Coerentemente con una storia ideologica che comprende anche pagine non proprio entusiasmanti di Marx, gli ebrei sono visti come agenti del capitalismo, che dissolve legami e sradica ulivi per impiantarvi centri commerciali. Ma siccome l'ideologia del sangue e del suolo ha portato alla Shoah, l'immaginario rossobruno, per mantenersi puro, deve manipolare anche la Shoah. Abbiamo quindi sensazionali rivelazioni, sul fatto che non solo gli ebrei ne sono stati vittime (fatto che nessuno nega, anche se forse sarebbe bene distinguere tra internamento e sterminio, per dire), che le sofferenze ebraiche sono state ingigantite per legittimare una catastrofe uguale o peggiore fatta patire ai palestinesi, fino al ridimensionamento, laddove la Shoah diventa solo uno dei tanti capitoli della storia dell'infamia umana. Perché l'uomo è cattivo e peccatore: il sottotesto cattolico di questa lettura della Shoah, così centrata sulle categorie della colpa, è fin troppo evidente.
L'immagine dell'ebreo che popola gli incubi dei rossobruni è infatti la stessa del fondamentalismo cattolico, che l'area antimperialista ha sdoganato, dopo gli anni in cui quel genere di nostalgie erano rappresentate da Irene Pivetti. Grazie a padre Benjamin e alle sue tirate contro i sei milioni (un numero a caso...) di bambini arabi uccisi indovina da chi, personaggi come Maurizio Blondet e Luigi Cuppertino sono usciti dalle fogne, hanno allargato il proprio pubblico in maniera insperata, dopo aver nascosto la camicia nera sotto il manto della religiosità comune a islamici e cattolici, coalizzati indovina contro quale nemico. Esito prevedibile, perlomeno da quando i libri di Israel Shahak hanno iniziato a venir pubblicati per le case editrici lefebvriane. Se l'antisemitismo è, soprattutto, la paura del potere degli ebrei, il cattolicesimo integralista si esercita da decenni ad attribuire al predetto eccessivo potere più o meno tutto quel che succede di male nel mondo, dalla breccia di Porta Pia in poi.
Nell'allucinato immaginario rossobruno, gli ebrei hanno potere perché c'è stata (o perché fanno credere ci sia stata) la Shoah. In altre parole: siccome esiste l'antisemitismo - o siccome gli ebrei sanno usare l'accusa di antisemitismo, gli ebrei (oppure Israele) hanno conquistato il potere di cui attualmente godono; e che, ovviamente, è pericoloso per l'intera umanità. Ecco perché una delle occupazioni preferite dai rossobruni è trvare i nuovi antisemitismi. Non soltanto i brutti libri della Fallaci sarebbero una versione anti-araba dei Protocolli dei Savi di Sion, ma esisterebbe anche un anti-latinoamericanismo (che si esprime quando non si plaude a Chavez e a Castro con il dovuto entusiasmo) ed ovviamente un anti-antifascismo. Le categorie prossime al Bene diventano nientemeno che delle razze e sono così ancora più prossime al bene assoluto. E se si continua a parlare di Shoah o di antisemitismo, si finisce per fare un favore alle forze del Male. E diventa così possibile sostenere che i palestinesi non si stanno ammazzando tra di loro (clan contro clan, più che partito contro partito) ma che muoiono perché il mondo intero è ricattato con l'accusa di antisemitismo.
Come se a Gaza la gente morisse perché bombardata con copie dei libri di Primo Levi.