il mio undici settembre
A poche centinaia di metri da casa mia (ma in un altro isolato) ci sta il consolato USA. Oggi ha la bandiera a mezz'asta. Ci sono passato davanti mentre andavo a fare la spesa.
Ogni mattina, prima dell'inizio delle lezioni, noi studenti ci troviamo per dire la tefillah. Sì, lo fanno anche i Reform. Io è un po' che manco, perché sono impegnato con le selichot, e mezz'ora di sonno è comunque preziosa. Però stamattina volevo esserci. Come ho già scritto, siamo un gruppo di studenti, che sono in larga parte americani, tra i quali però i newyorkesi non sono la maggioranza. Questo è curioso, perché un terzo degli ebrei del Pianeta Terra vive a New York.
Così dopo la Amidah c'è stato, per loro, il tempo per raccontare il proprio undici settembre. Quello del 1997, quello del 2001, quello del 2005. Raccontare come era prima, e come è dopo. C'è chi è tornata a casa da scuola solo per scoprire che la casa non c'era più. C'è qualcuna giovane che, a partire da quel giorno si è resa conto che si poteva criticare il governo - ogni generazione ha la propria piazza Fontana, mi veniva da pensare (per la mia è stato l'omicidio Moro). C'è chi ogni volta che passa davanti a una scuola piange perché vede che le mamme non possono più accompagnare i bambini al di là dei cancelli. C'è chi riesce solo a dire ci stiamo tutti muovendo nella direzione sbagliata. O anche: i diritti si sono ridotti, non sono persona che deve parlare di politica ma è chiaro che (libera traduzione da espressioni americane che significano compagni il problema è politico).
Insomma, se non si è capito, non sono finito in mezzo a sostenitori dell'amministrazione Bush: da questo punto di vista i miei compagni di studio sono un campione statisticamente significativo dell'Ebraismo americano.
Io ho pensato a come è andato il mio undici settembre. Ero in biblioteca e ho sentito degli studenti parlare di aerei, torri e espressioni tipo: gli è andato contro, e poi è caduto tutto. Nel giro di dieci minuti l'università si è svuotata e io ho chiamato un amico giornalista, che mi ha raccontato di due aerei contro le Torri Gemelle, cazzo. Ho incontrato un collega e gli ho spiegato cosa era successo. Fino a questo punto la sensazione prevalente era l'essere attoniti. Avevo più o meno finito quel che dovevo fare e allora mi sono mosso verso la metropolitana, ho incontrato un gruppo di turisti americani che stavano in silenzio davanti a un negozio di televisori, era una bella giornata, c'era il sole che faceva riflessi nelle vetrine e quindi non si vedeva bene nella televisione di là della vetrina, sicché è toccato a me dare la notizia, e ho detto così: Do you remember Twin Towers? Non dimenticherò mai gli occhi di quel signore. Non li dimenticherò mai perché, ripeto, erano gli stessi occhi dei miei colleghi, degli studenti, dei miei amici - fino a quel momento.
E' stato il giorno dopo che le cose hanno cominciato a cambiare. Sempre più gente diceva, a me, che siccome c'era stato quell'attentato a New York era venuta ora di affrontare e risolvere la questione palestinese. Poi è venuta la leggenda dei cinquemila ebrei che non si erano presentati al lavoro la mattina dell'undici settembre - raccontata e diffusa anche dalla emittente radiofonica di sinistra di cui ero economicamente sostenitore. Poi la vignetta su Cuore (curiosa circoncidenza) così simile a tante altre vignette che i nostri nonni hanno dovuto sopportare. E, contemporanente, la storia di quello che aveva passeggiato per le strade di Firenze con indosso una bandiera palestinese e altro che quello che rischiano gli ebrei con i loro simboli, i veri perseguitati sono altri e i persecutori indovina chi sono.
Come si è reagito da parte ebraica, lo sappiamo bene. Ricordo un articolo su Ha Kehillah che diceva per favore teniamo fuori gli ebrei da questa storia, ma era l'autrice la prima a non crederci. Si poteva regaire diversamente? E chi lo sa. Fatto sta che proprio a partire da quel giorno di settembre si è dovuto investire di più sulla sicurezza. Anche perché le telefonate minatorie che ricevevamo si sono, improvvisamente, moltiplicate.
Diciamolo qui: io non credo che siamo dentro uno scontro di civiltà. Credo che all'interno di tutte le religioni, ma soprattutto nell'Islam, sia in corso uno scontro tra fondamentalisti e modernità. I fondamentalisti sanno che perderanno, e quindi conducono la battaglia in maniera sempre più criminale. E mi chiedo come mai i miei compagni di studio non si sono fatti trascinare in questa logica. Perché reagiscono alla perdita della casa leggendo Rumore bianco di Don De Lillo, o scoprendo la possibilità di criticare il loro governo, proprio mentre è impegnato in guerra. E nello stesso tempo, non si fanno prendere dalla auto-fustigazione stile: Il male del mondo è tutto colpa nostra, che vedo così comune tra gli orfani del comunismo (e che Uriel descrive qui in maniera magistrale). Una risposta, più o meno, ce la ho.
Ogni mattina, prima dell'inizio delle lezioni, noi studenti ci troviamo per dire la tefillah. Sì, lo fanno anche i Reform. Io è un po' che manco, perché sono impegnato con le selichot, e mezz'ora di sonno è comunque preziosa. Però stamattina volevo esserci. Come ho già scritto, siamo un gruppo di studenti, che sono in larga parte americani, tra i quali però i newyorkesi non sono la maggioranza. Questo è curioso, perché un terzo degli ebrei del Pianeta Terra vive a New York.
Così dopo la Amidah c'è stato, per loro, il tempo per raccontare il proprio undici settembre. Quello del 1997, quello del 2001, quello del 2005. Raccontare come era prima, e come è dopo. C'è chi è tornata a casa da scuola solo per scoprire che la casa non c'era più. C'è qualcuna giovane che, a partire da quel giorno si è resa conto che si poteva criticare il governo - ogni generazione ha la propria piazza Fontana, mi veniva da pensare (per la mia è stato l'omicidio Moro). C'è chi ogni volta che passa davanti a una scuola piange perché vede che le mamme non possono più accompagnare i bambini al di là dei cancelli. C'è chi riesce solo a dire ci stiamo tutti muovendo nella direzione sbagliata. O anche: i diritti si sono ridotti, non sono persona che deve parlare di politica ma è chiaro che (libera traduzione da espressioni americane che significano compagni il problema è politico).
Insomma, se non si è capito, non sono finito in mezzo a sostenitori dell'amministrazione Bush: da questo punto di vista i miei compagni di studio sono un campione statisticamente significativo dell'Ebraismo americano.
Io ho pensato a come è andato il mio undici settembre. Ero in biblioteca e ho sentito degli studenti parlare di aerei, torri e espressioni tipo: gli è andato contro, e poi è caduto tutto. Nel giro di dieci minuti l'università si è svuotata e io ho chiamato un amico giornalista, che mi ha raccontato di due aerei contro le Torri Gemelle, cazzo. Ho incontrato un collega e gli ho spiegato cosa era successo. Fino a questo punto la sensazione prevalente era l'essere attoniti. Avevo più o meno finito quel che dovevo fare e allora mi sono mosso verso la metropolitana, ho incontrato un gruppo di turisti americani che stavano in silenzio davanti a un negozio di televisori, era una bella giornata, c'era il sole che faceva riflessi nelle vetrine e quindi non si vedeva bene nella televisione di là della vetrina, sicché è toccato a me dare la notizia, e ho detto così: Do you remember Twin Towers? Non dimenticherò mai gli occhi di quel signore. Non li dimenticherò mai perché, ripeto, erano gli stessi occhi dei miei colleghi, degli studenti, dei miei amici - fino a quel momento.
E' stato il giorno dopo che le cose hanno cominciato a cambiare. Sempre più gente diceva, a me, che siccome c'era stato quell'attentato a New York era venuta ora di affrontare e risolvere la questione palestinese. Poi è venuta la leggenda dei cinquemila ebrei che non si erano presentati al lavoro la mattina dell'undici settembre - raccontata e diffusa anche dalla emittente radiofonica di sinistra di cui ero economicamente sostenitore. Poi la vignetta su Cuore (curiosa circoncidenza) così simile a tante altre vignette che i nostri nonni hanno dovuto sopportare. E, contemporanente, la storia di quello che aveva passeggiato per le strade di Firenze con indosso una bandiera palestinese e altro che quello che rischiano gli ebrei con i loro simboli, i veri perseguitati sono altri e i persecutori indovina chi sono.
Come si è reagito da parte ebraica, lo sappiamo bene. Ricordo un articolo su Ha Kehillah che diceva per favore teniamo fuori gli ebrei da questa storia, ma era l'autrice la prima a non crederci. Si poteva regaire diversamente? E chi lo sa. Fatto sta che proprio a partire da quel giorno di settembre si è dovuto investire di più sulla sicurezza. Anche perché le telefonate minatorie che ricevevamo si sono, improvvisamente, moltiplicate.
Diciamolo qui: io non credo che siamo dentro uno scontro di civiltà. Credo che all'interno di tutte le religioni, ma soprattutto nell'Islam, sia in corso uno scontro tra fondamentalisti e modernità. I fondamentalisti sanno che perderanno, e quindi conducono la battaglia in maniera sempre più criminale. E mi chiedo come mai i miei compagni di studio non si sono fatti trascinare in questa logica. Perché reagiscono alla perdita della casa leggendo Rumore bianco di Don De Lillo, o scoprendo la possibilità di criticare il loro governo, proprio mentre è impegnato in guerra. E nello stesso tempo, non si fanno prendere dalla auto-fustigazione stile: Il male del mondo è tutto colpa nostra, che vedo così comune tra gli orfani del comunismo (e che Uriel descrive qui in maniera magistrale). Una risposta, più o meno, ce la ho.
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