martedì, aprile 24, 2007

intervista a Dov Baer

Personalmente trovo il blog di Dov Baer uno dei più interessanti, anche se la sua ortodossia è abbastanza lontana dalle mie posizioni. Nei confronti che ha con esponenti della maggioranza ebraica americana (che non è ortodossa, quanto è fastidioso doverlo sempre ripetere), si dimostra sempre un interlocutore rispettoso e fiducioso nella possibilità di trovare un terreno comune.
Che, beninteso, è una cosa completamente diversa dalla fissazione unitaristica che pervade gran parte del mondo ebraico italiano. Qui espressioni come "badiamo a costruire e non cerchiamo scontri" significano spesso: ti creo condizioni così umilianti che sarai costretto ad andartene. "Cerchiamo di mantenere unità e concordia" significa invece: ora te ne stai zitto. E "pluralismo" significa convivenza forzata. Che è una cosa molto diversa dal terreno comune.
Il terreno comune è simile a una scacchiera in cui due giocatori, che sono ben consapevoli di non essere un unico soggetto (perché hanno gusti e obiettivi diversi), seguono le stesse regole. La convivenza forzata invece significa che i due giocatori stanno dallo stesso lato, si illudono di avere uno stesso obiettivo, anzi: di essere un medesimo soggetto. Tutte le realtà che vivono una situazione di convivenza forzata prima o poi si cercano (o si inventano) un nemico, e cercano di rafforzare la propria unità sulla base del fatto che sono in competizione con questo avversario. In realtà, poi, non c'è nessuna unità: ed i due soggetti, che credono di essere uno, se le danno di santa ragione perché ciascuno pretende di parlare a nome di tutti (cioé dell'altro). La convivenza forzata, infatti, è l'anticamera della crisi. Perché queste battaglie interiori accorciano la vista.
Dov Baer viene intervistato qui da Harry Maryles, un altro bloggatore abbastanza popolare. Sulla attuale fase del movimento Chabad è straordinariamente lucido:
"From the time of the Alter Rebbe, Hasidut has been trying to integrate itself into the Torah world, and they've had very good success, of course.They'll either complete this intergaration or go the route of the Karriaites. We'll know in 200 years or so. I think messianic Lubavitch, unfortunately, is exactly where the Church was at the time of the kerygma (ie in the 40-80 years between the death of Jesus and the publication of the gospels). The similarities are numerous."
Dov Baer non è impegnato a salvare alcun tipo di unità e quindi può permettersi di pensare in termini, addirittura, di secoli. Ed è impossibile avere uno sguardo così lucido se si è imprigionati dalle beghe e dalle catene di ripicche che porta con sé la ricerca dell'unità a tutti i costi (con chi ti dice che il Messia è già arrivato, per esempio).
Essere intervistato è piaciuto molto a Dov Baer, che ha postato suo suo blog degli addenda alla predetta intervista. E proprio qui io trovo un esempio di terreno comune. Da ortodosso, Dov Baer sostiene di non poter utilizzare il titolo di Rabbi quando si parla di un rabbino Reform. Ma se loro desiderano essere così chiamati, argomenta, bisognerebbe trovare un modo. La soluzione è che si utilizzi almeno una volta l'espressione Reform Rabbi. E autorizza così per reciprocità, anche l'impiego dell'appellativo Orthodox Rabbi. Se si marcano le differenze si guadagna rispetto e considerazione.
A proposito di Chabad io sono perfettamente d'accordo con Dov Baer: tra un paio di secoli saranno un'altra religione rispetto all'Ebraismo. Nessun ebreo italiano (fatti salvi coloro che hanno sostenuto e diffuso il libro di David Berger) si è mai posto il seguente problema: cosa succederà entro, appunto, un paio di secoli? Certo, siamo troppo occupati a sopravvivere, vediamo gli anziani scomparire, sentiamo sul collo il fiato dell'assimilazione, ci attanaglia il rischio di vedere le sinagoghe chiuse o trasfromate in musei. Ma soprattutto il fervore di Chabad, che danno per imminente l'arrivo del Messia, ci ha travolti: illudendoci di essere un unico soggetto, accettiamo che stabiliscano il calendario e gli argomenti di conversazione.

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