giovedì, settembre 20, 2007

figli del sole

A quanto pare i kibbutz in Italia suscitano un entusiasmo bipartisan - che per me puzza molto di strumentalizzazioni. Mi è venuta voglia di raccontare un film che ho visto un paio di sere fa, che si intitola I figli del sole e racconta l'educazione nei kibbutzim socialisti. Il regista - Ron Tal - ha preso dei filmati realizzati nei kibbutzim e li ha fatti vedere a quei bambini, ormai cresciuti, e ai loro genitori. E ha registrato le loro voci.
Così si vedono, in bianco e nero, ragazzi e ragazze che giocano nei campi e si sentono voci di anziani che raccontano la scoperta della sessualità in stile socialista ("E come è stato il primo bacio?",chiede il regista "Ti ho detto che non te lo dico!", risponde una signora). Si vedono scene di lavoro nei campi ("Non esisteva una cosa come: non ho voglia di lavorare"), si sentono i signori cantare l'Internazionale in ebraico ("Ricordarmi ? Certo che me la ricordo, stai a sentire"). L'ebreo nuovo era anche molto fisico, anche se non so se gli ideatori del sistema avevano previsto la derisione ad opera del gruppo dei coetanei. Si faceva la doccia insieme fino ai tredici anni: le immagini di ragazzini ridenti sotto la doccia commentate dagli anziani di anni dopo non sono facili da sopportare e spiegano anche come mai una buona parte delle generazioni nate in quegli anni non sia tornava in kibbutz dopo il servizio militare.
Il contatto tra genitori e figli era limitato a poche ore al giorno, quando i genitori tornavano dai campi: i bambini dormivano nella Casa dei bimbi già a partire da pochi mesi di età e di loro si prendevano cura, a turno, le compagne - giacché vigeva il princìpio della rotazione degli incarichi: questo mese vai a trebbiare, il mese prossimo sei di turno nella Casa dei bimbi.

Chi ci è cresciuto dice che non ha sentito la mancanza della mamma e del babbo (voce di anziana signora: "E dopo tre mesi ha iniziato a dormire nella casa dei bambini. Separazione? Non era separazione. Era nel kibbutz!") ma non lo rifarebbe ai suoi figli, perché dei fratelli sì, di loro ha sentito la mancanza. Nell'ultima scena tu vedi scorrere i volti di questi ebrei nuovi, filmati dal basso verso l'alto, come li vedrebbe un bambino. E sorridono, ciascuno a modo suo. E poi le schermo diventa nero e alla fine dei titoli di coda, nell'angolo a destra in basso ti leggi le-abba le-ima e capisci che è l'omaggio del regista, cresciuto in kibbutz, ai suoi genitori, al loro mondo e ai loro sogni e alla grandezza di quei sogni. "Sono un ebreo nuovo? No, non so se sono un ebreo nuovo. Sono un ebreo del kibbutz. Sono un ebreo"
C'è una inquadratura che non mi esce di testa. E' un giorno di pioggia. Qualcuno dei compagni è uscito sotto la pioggia per fare una fotografia, o girare un piccolo frammento dei filmini di famiglia (di quello che nella società borghese sono i filmini di famiglia). I bambini sono rimasti nella Casa e guardano fuori, oltre la pioggia e hanno il naso spiaccicato contro il vetro della finestra. Ho pensato che chi ha girato quella breve sequenza pensava di fare una bella cosa per la sua comunità e per i genitori di quei bambini. Era un filmato che doveva ispirare tenerezza, allegria. Sentimenti che adesso percepisci impossibili, quando sai che un bimbo non sta con i genitori il più tempo possibile. Chissà se è questa, quella famosa natura umana che la storia non può cambiare.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Ciao Andrea, mi piacerebbe vedere il film di cui parli. Si trova anche in italiano e inglese? In che senso dici la "natura umana che la storia non può cambiare"? Quella del kibbutz è un'idea che avevo preso in considerazione tempo fa su suggestione di un'amica israeliana (avevo consultato le pagine relative al programma kibbutz ulpan), ma l'ho abbandonata perché comportava troppe spese (alcune delle quali piuttosto burocratiche e dubbie).

נחום ha detto...

No, non mi pare che il film sia mai stato doppiato in altre lingue - per certo non lo era quando lo ho visto qua a Gerusalemme.
Parlando di natura e storia mi riferivo al progetto dei kibbutznik socialisti di sostituire la famiglia con la comunità, o di assegnare alla comunità molti dei compiti della famiglia. Progetto che si basava sull'idea socialista che la famiglia sia una sovrastruttura storica, che riflette il modo di produzione e che quindi prima o poi sarebbe finita. Invece è il progetto socialista che è finito prima. Torno da un viaggio nel Nord di Israele, dove questo progetto è stato elaborato e ha mosso i primi passi, conto di scriverci meglio nei prossimi giorni. Ciao e grazie del commento.

Andrea ha detto...

Ho capito, grazie. Sicuramente quella tua sul modello kibbutz è un'opinione molto controcorrente rispetto a quelle che ho udito finora (e per questo mi interessa). E per quanto riguarda i moshavim? Non sono più a misura d'uomo?

Andrea
ilbaco.ilcannocchiale.it

נחום ha detto...

Non vorrei essere sembrato troppo pessimista. I kibbutzim sono vivi e vegeti e così pure i moshavim. E' quel progetto di trasformare tutti gli ebrei in israeliani socialisti che se la sta passando maluccio, perlomeno dalla guerra del Kippur. Come minimo è invecchiato. Ma prometto che ci torno.