cosa c'è che non (mi) va in Moni Ovadia
Moni Ovadia è un buon musicista, appartiene a una generazione che ha vissuto intensamente politica e musica folk e ad un certo punto del suo percorso ha incontrato la musica klezmer. E grazie ai suoi spettacoli, in cui mette insieme vecchie canzoni e barzellette yddish tratte da libri di autori americani, si è costruito una solida fama, che ad un certo punto gli ha pure permesso di entrare in politica. Per il teatro italiano Ovadia è sinonimo di tutto esaurito e i suoi libri sono popolarissimi. Allora cosa c'è che non va?
Detto molto sinceramente. Moni Ovadia per me è un personaggio kitsch. Questo non per via del confine tra kitsch e "autentico", che pure da qualche parte esiste e che credo lui superi. Negli spettacoli di Moni Ovadia il mondo degli shtetl russi e polacchi di un secolo fa, che era caratterizzato dal silenzio, diventa qualcosa di urlato, che lui fa rivivere con la voce di un rabbino Chabad milanese che lui imita (appunto: imita) alla perfezione.
Moni Ovadia, con i suoi personaggi urlati, costruisce ad uso e consumo del pubblico un mondo popolato da rabbini e/o da morti di fame, tutti maschi - fateci caso, le donne sono presenti solo nel ruolo di madre e, qualche volta, di moglie rompicoglioni. Il pubblico apprezza. Apprezza una rappresentazione dell'Ebraismo dell'Europa dell'est in cui sono più o meno assenti tutti quelli che volevano fare degli ebrei un popolo come gli altri: territorialisti, autonomisti e naturalmente i sionisti. Del tutto inesistente è il Betar -il movimento nazionalistico che nel ghetto di Varsavia era maggioritario- proprio come era assente nella storiografia ufficiale israeliana negli anni Cinquanta e Sessanta.
Ovviamente non è colpa di Moni Ovadia se al pubblico italiano piace sentirsi raccontare -in forma di musica o di barzelletta- che la autentica esistenza ebraica è sempre altrove, all'epoca cui risalgono le prime fotografie dei nonni e che la Shoah ci avrebbe fatto fatto irrimediabilmente perdere. Ma non è vero. I hassidim esistono ancora, lo yddish si parla ancora. Sono stati profondamente feriti dalla Shoah (che per loro non è stata la peggiore catastrofe della storia - notizia sensazionale: i hassidim non conoscono Adorno); la Shoah è stata per loro solo una delle molte persecuzioni che il popolo ebraico ha subito. Gli ultraortodossi hanno reagito ricostruendo il loro mondo, che non è affatto "fuori dal tempo", come spesso si dice. Non suonano più (solo) klezmer: esistono musicisti hassid che fanno techno, hip hop, heavy metal, tutto in yddish - al simpatico lettore che mi ha chiesto dove può trovare i dischi di Lipa Schmeltzer, io rispondo di provare su internet e che se cerca con attenzione può trovare di molto.
Moni Ovadia mette in scena una rappresentazione dell'Ebraismo e degli "ebrei veri" che è la stessa dei cappelli neri. Mi spiego: qui a Gerusalemme gli "ebrei veri", quelli che credono alla stessa rappresentazione ovadiana li chiamiamo black-hat, in inglese, perché sono tutti americani (e parlano inglese, non ebraico); black hat non è sinonimo di haredi , ma di haredi "ritornato", cioé nato laico e diventato ad un certo punto ultraosservante, fino a trasferirsi qui.
Evidentemente al pubblico italiano piace questo immaginario dei cappelli neri. Perché? In Italia si parla molto di ebrei particolarmente in riferimento a due argomenti: la Shoah (cioé la memoria) e Israele. Quando i mass media si occupano di spiritualità o di morale, l'unica voce che conta è quella cattolica, che trasforma la spiritualità in morale. Tutte le altre voci sono accessorie: entrate in una libreria, cercate lo scaffale di ebraistica, nove volte su dieci è collocato tra le religioni e sta immediatamente accanto all'ultimo libro del/sul papa. Noi ebrei abbiamo un sacco di belle cose da dire. Per esempio sul rapporto tra modernità e tradizione, o sui diritti dei gay. Ma sembra che in Italia gli ebrei e l'Ebraismo interessino solo per due aspetti della loro storia recente: lo sterminio e Israele.
Che sono, se ci pensate bene, due varianti del tema della colpa. Ché se si parla della Shoah, è quasi meccanico parlare di risarcimenti e di scuse. Se si parla di Israele lo si fa (poco) per difenderne il diritto ad esistere oppure (molto, molto più spesso) per denunciarne le colpe. Parlare delle colpe di uno Stato, secondo me, è qualcosa di paradossale. Gli Stati non sono entità morali. Ma da Israele, siccome è stato fondato da superstiti della Shoah, ci si aspetta un comportamento più morale. E guarda caso se ne constata sempre l'assenza.
Al pubblico italiano che critica Israele, e a cui piace molto il Moni Ovadia che critica Israele, sfugge il fatto che essere stati fondati da superstiti della Shoah non significa assolutamente nulla sul piano morale, men che meno l'obbligo di osservare un comportamento più morale - perché se uno ha subito delle violenze sessuali mica diventa per forza uno psicologo. Ma questo, dicono, dovrebbe valere per le persone normali. Gli ebrei, quelli veri, che stanno nel loro altrove, devono comportarsi in maniera diversa. Se non lo fanno, ed è del tutto evidente che non lo fanno in Israele, che è uno Stato normale, dove gli ebrei di solito, quando sono feriti, sanguinano come tutti gli altri (giusto per citare uno che sull'antisemitsmo la sapeva lunga), se non lo fanno, dicevo, allora viene persa la Memoria della Shoah.
Scusate, non ci sto. Non ci sto a questo gioco in cui gli ebrei morti hanno sempre l'ultima parola rispetto agli ebrei vivi. Non ci sto a questo gioco secondo cui l'unico modo di vivere l'Ebraismo è vivere in un universo parallelo e irraggiungibile, penso -come Jabotinsky, sì- che l'Ebraismo sia qualcosa di più delle regole della kasherut e che la nostra tradizione abbia in sé dei forti valori: non opprimere l'orfano e lo straniero, per esempio - che ha tutto il diritto di rimanere straniero. Possiamo persino vivere secondo quei princìpi senza costruire intorno a noi delle barriere. O addirittura influire in senso positivo la società nella quale viviamo, senza bisogno di scomodare i morti della Shoah ogni volta che ci sono le elezioni.
In breve, di Moni Ovadia non mi piacciono gli ebrei "di altrove" che lui si inventa e che esistono solo nello spazio della rappresentazione, per compiacere il suo pubblico, il quale tra ebrei e persecutori (arabi, ultimamente) di solito mantiene una posizione terza, o peggio ne capisce le ragioni. Un pubblico pronto a identificarsi con questi ebrei immaginati, che dal loro altrove gettano disapprovazione sul legame tra Shoah e Israele. O su Israele e basta.
Detto molto sinceramente. Moni Ovadia per me è un personaggio kitsch. Questo non per via del confine tra kitsch e "autentico", che pure da qualche parte esiste e che credo lui superi. Negli spettacoli di Moni Ovadia il mondo degli shtetl russi e polacchi di un secolo fa, che era caratterizzato dal silenzio, diventa qualcosa di urlato, che lui fa rivivere con la voce di un rabbino Chabad milanese che lui imita (appunto: imita) alla perfezione.
Moni Ovadia, con i suoi personaggi urlati, costruisce ad uso e consumo del pubblico un mondo popolato da rabbini e/o da morti di fame, tutti maschi - fateci caso, le donne sono presenti solo nel ruolo di madre e, qualche volta, di moglie rompicoglioni. Il pubblico apprezza. Apprezza una rappresentazione dell'Ebraismo dell'Europa dell'est in cui sono più o meno assenti tutti quelli che volevano fare degli ebrei un popolo come gli altri: territorialisti, autonomisti e naturalmente i sionisti. Del tutto inesistente è il Betar -il movimento nazionalistico che nel ghetto di Varsavia era maggioritario- proprio come era assente nella storiografia ufficiale israeliana negli anni Cinquanta e Sessanta.
Ovviamente non è colpa di Moni Ovadia se al pubblico italiano piace sentirsi raccontare -in forma di musica o di barzelletta- che la autentica esistenza ebraica è sempre altrove, all'epoca cui risalgono le prime fotografie dei nonni e che la Shoah ci avrebbe fatto fatto irrimediabilmente perdere. Ma non è vero. I hassidim esistono ancora, lo yddish si parla ancora. Sono stati profondamente feriti dalla Shoah (che per loro non è stata la peggiore catastrofe della storia - notizia sensazionale: i hassidim non conoscono Adorno); la Shoah è stata per loro solo una delle molte persecuzioni che il popolo ebraico ha subito. Gli ultraortodossi hanno reagito ricostruendo il loro mondo, che non è affatto "fuori dal tempo", come spesso si dice. Non suonano più (solo) klezmer: esistono musicisti hassid che fanno techno, hip hop, heavy metal, tutto in yddish - al simpatico lettore che mi ha chiesto dove può trovare i dischi di Lipa Schmeltzer, io rispondo di provare su internet e che se cerca con attenzione può trovare di molto.
Moni Ovadia mette in scena una rappresentazione dell'Ebraismo e degli "ebrei veri" che è la stessa dei cappelli neri. Mi spiego: qui a Gerusalemme gli "ebrei veri", quelli che credono alla stessa rappresentazione ovadiana li chiamiamo black-hat, in inglese, perché sono tutti americani (e parlano inglese, non ebraico); black hat non è sinonimo di haredi , ma di haredi "ritornato", cioé nato laico e diventato ad un certo punto ultraosservante, fino a trasferirsi qui.
Evidentemente al pubblico italiano piace questo immaginario dei cappelli neri. Perché? In Italia si parla molto di ebrei particolarmente in riferimento a due argomenti: la Shoah (cioé la memoria) e Israele. Quando i mass media si occupano di spiritualità o di morale, l'unica voce che conta è quella cattolica, che trasforma la spiritualità in morale. Tutte le altre voci sono accessorie: entrate in una libreria, cercate lo scaffale di ebraistica, nove volte su dieci è collocato tra le religioni e sta immediatamente accanto all'ultimo libro del/sul papa. Noi ebrei abbiamo un sacco di belle cose da dire. Per esempio sul rapporto tra modernità e tradizione, o sui diritti dei gay. Ma sembra che in Italia gli ebrei e l'Ebraismo interessino solo per due aspetti della loro storia recente: lo sterminio e Israele.
Che sono, se ci pensate bene, due varianti del tema della colpa. Ché se si parla della Shoah, è quasi meccanico parlare di risarcimenti e di scuse. Se si parla di Israele lo si fa (poco) per difenderne il diritto ad esistere oppure (molto, molto più spesso) per denunciarne le colpe. Parlare delle colpe di uno Stato, secondo me, è qualcosa di paradossale. Gli Stati non sono entità morali. Ma da Israele, siccome è stato fondato da superstiti della Shoah, ci si aspetta un comportamento più morale. E guarda caso se ne constata sempre l'assenza.
Al pubblico italiano che critica Israele, e a cui piace molto il Moni Ovadia che critica Israele, sfugge il fatto che essere stati fondati da superstiti della Shoah non significa assolutamente nulla sul piano morale, men che meno l'obbligo di osservare un comportamento più morale - perché se uno ha subito delle violenze sessuali mica diventa per forza uno psicologo. Ma questo, dicono, dovrebbe valere per le persone normali. Gli ebrei, quelli veri, che stanno nel loro altrove, devono comportarsi in maniera diversa. Se non lo fanno, ed è del tutto evidente che non lo fanno in Israele, che è uno Stato normale, dove gli ebrei di solito, quando sono feriti, sanguinano come tutti gli altri (giusto per citare uno che sull'antisemitsmo la sapeva lunga), se non lo fanno, dicevo, allora viene persa la Memoria della Shoah.
Scusate, non ci sto. Non ci sto a questo gioco in cui gli ebrei morti hanno sempre l'ultima parola rispetto agli ebrei vivi. Non ci sto a questo gioco secondo cui l'unico modo di vivere l'Ebraismo è vivere in un universo parallelo e irraggiungibile, penso -come Jabotinsky, sì- che l'Ebraismo sia qualcosa di più delle regole della kasherut e che la nostra tradizione abbia in sé dei forti valori: non opprimere l'orfano e lo straniero, per esempio - che ha tutto il diritto di rimanere straniero. Possiamo persino vivere secondo quei princìpi senza costruire intorno a noi delle barriere. O addirittura influire in senso positivo la società nella quale viviamo, senza bisogno di scomodare i morti della Shoah ogni volta che ci sono le elezioni.
In breve, di Moni Ovadia non mi piacciono gli ebrei "di altrove" che lui si inventa e che esistono solo nello spazio della rappresentazione, per compiacere il suo pubblico, il quale tra ebrei e persecutori (arabi, ultimamente) di solito mantiene una posizione terza, o peggio ne capisce le ragioni. Un pubblico pronto a identificarsi con questi ebrei immaginati, che dal loro altrove gettano disapprovazione sul legame tra Shoah e Israele. O su Israele e basta.
4 commenti:
'bel post' (prima impressione).
'riesce a spiegare qualcosa sul motivo per cui l'estetica posticcia della riduzione al folklore non sia una questione di non-autenticità' (seconda impressione). La terza la metterei giù così: Moni Ovadia sarebbe un superbo marketing manager, secondo me.
Spiace se linko?
In una parola il commento sul cosa non vada in Moni Ovadia mi pare del tutto esaustivo e più che accettabile. Anche da una persona che, pur cercando di conoscerli, è consapevole di sapere molto poco dell'ebraismo e di Israele. Nonostante le tante letture e le amicizie con gli ebrei di Israele. Credo che il testo del post dia più di una mera risposta alla questione Ovadia, ma aiuti a vedere quale può essere il cammino che può portare ad una comprensione, almeno minima, di quanto attiene appunto all'ebraismo ed ad Israele. Sono grato ad Ariela per avermi segnalato questo sito. In questo modo cercherò di disturbare un po' meno lei... e un po' più Andrea. In ogni caso grazie per tutti gli interessanti contributi, compresi quelli scherzosi come quello relativo al colloquio col passante sulla visita di Bush e magliette della Città Vecchia. Davvero dovremmo imparare ad ascoltare gli ebrei quando parlano e non presumere di parlare al posto loro. Le radici sono certo comuni, ma ho davvero l'impressione che ci sia chi è più "radicato" di quanto non possiamo pensarlo noi da lontano. Buon lavoro e buon fine settimana.
Per Gopk - ho la sensazione che siamo a pochissimi gradi di separazione (Firenze, Rom). Link libero, scrivimi.
Bravissimissimo Andrea!
Shabbath Shalom
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