parasha Ithrò
I Comandamenti -va bene, va bene, la traduzione Comandamenti è inappropriata, lo so- iniziano (Esodo 20:2) con la parola אנכי, cioé con la lettera א, che come è noto è muta, è un semplice conato, un tentativo di suono che rimane nella gola. Lo Zohar riporta una famosa discussione in proposito. Il termine אנכי, che è uno dei modi di dire io, non si trova così spesso nella Bibbia, e uno dei punti in cui lo si trova è Genesi 46:4, Io verrò con te in Egitto - dice Dio a Yakov. Quindi secondo lo Zohar, questo אנכי di Esodo 20 è Dio che ha accompagnato gli ebrei in Egitto e li ha liberati. Un'altra opinione vuole che dopo אנכי ci sia stata una pausa, e che le parole successive -il Signore vostro Dio- siano uscite dal cielo, come riportato in Esodo 20:22. La presenza di Dio, con tutte le mitzwot, la strada verso la liberazione, era quindi presente già nella prima lettera della prima parola, che è una א, una lettera semi-muta, un suono che riesci a sentire se proprio vuoi - per semplificare pagine molto belle di contemporanei (Lawrence Kushner, per esempio).
Si sono spese molte parole (le ho spese anche io) per creare il bailamme degli ultimi giorni, in cui noi ebrei, quel che siamo e quel che crediamo -l'essere ebrei, l'Ebraismo. Non sono soddisfatto del risultato. Internet è simile a una edicola, non a una biblioteca: finisci per leggere solo i titoli, occhieggiare le copertine, fare qualche abbonamento. Si accumulano parole, e accumulare parole sull'essere ebrei trasforma la realtà degli ebrei in uno strumento per battaglie ideologiche. Non c'è niente di male nelle battaglie ideologiche -io, poi, mi ci diverto anche- fanno parte della realtà della vita e l'Ebraismo non è ascetismo, non è fuga dalla realtà. Il movimento dovrebbe essere inverso: cioé le battaglie ideologiche dovrebbero essere "santificate", parte di un percorso di liberazione. E l'essere ebrei non dovrebbe essere uno strumento per essere qualcosa di altro. Servirebbero degli antidoti a questa strumentalizzazione. Sarebbe facile se fosse proibito nel nome di qualche autorità superiore. Ma come si fa, quando il massimo che puoi imparare dalla tua tradizione è un suono inarticolato?
Però. Proseguiamo la discussione dello Zohar. Se Dio fosse nel silenzio prima di quel suono? Se Dio fosse nella possibilità? Nel silenzio che rende possibile sentire, e poi ascoltare, capire, distinguere? Se fosse, cioé, una condizione che rende possibili i discorsi, le interpretazioni, la vita? Qualcosa che sta alla realtà come le regole grammaticali stanno al linguaggio. O ancora prima.
A pensarci bene, non siamo in molti ad aver sentito parlare di Dio, perlomeno nella nostra educazione. Però sappiamo che siamo ebrei, di questo sentiamo parlare (oh, quanto!). Ci manca il linguaggio per collegare Dio a questo nostro essere ebrei. Ed è bene che il linguaggio non ci sia, perché quelli che parlano nel nome di Dio, oltre ad essere piuttosto pericolosi -specie di questi tempi, nella nostra tradizione sono diciamo impopolari. Noi sappiamo solo che Dio, in qualche modo, con noi c'entra. In un modo che non sappiamo bene quale è. Tipo un parente.
Ci sono sei parashot nella Torah nel cui titolo c'è un nome di persona. Tre di questi personaggi sono ebrei: Sara, Korach, Pinchas. Tre non sono ebrei: Noah, Ithrò, Balak. Di questi tre l'unico che ha una relazione specifica e positiva con il popolo ebraico è Ithrò. Nella parashà che porta il suo nome sono elencati i Dieci Comandamenti, che sono un po' il biglietto da visita con cui gli ebrei si presentano ai non ebrei, particolarmente a quelli monoteisti. Ma prima di quei Comandamenti, prima di quelle parole che sono anche fatti/cose (a voler tradurre accuratamente), prima c'è, appunto, il silenzio. Una condizione per poter sentire.
Io qui non sto proponendo di arrivare a Dio attraverso il silenzio. Dio è qualcosa di altro rispetto alla realtà in cui viviamo noi, che il silenzio lo riempiamo fino a cancellarlo. Non possiamo pensare di essere Dio. O di agire nel nome di Dio, come succede nei totalitarismi. Il silenzio, per me è una condizione. Una specie di berakhà, che si recita prima di compiere ogni azione. Più specificatamente, simile alla berakhà che pecede lo studio e chi ci impegna nel confronto con testi, linguaggi e tradizioni che non stanno nella nostra realtà, riempita di parole e di immagini.
Si sono spese molte parole (le ho spese anche io) per creare il bailamme degli ultimi giorni, in cui noi ebrei, quel che siamo e quel che crediamo -l'essere ebrei, l'Ebraismo. Non sono soddisfatto del risultato. Internet è simile a una edicola, non a una biblioteca: finisci per leggere solo i titoli, occhieggiare le copertine, fare qualche abbonamento. Si accumulano parole, e accumulare parole sull'essere ebrei trasforma la realtà degli ebrei in uno strumento per battaglie ideologiche. Non c'è niente di male nelle battaglie ideologiche -io, poi, mi ci diverto anche- fanno parte della realtà della vita e l'Ebraismo non è ascetismo, non è fuga dalla realtà. Il movimento dovrebbe essere inverso: cioé le battaglie ideologiche dovrebbero essere "santificate", parte di un percorso di liberazione. E l'essere ebrei non dovrebbe essere uno strumento per essere qualcosa di altro. Servirebbero degli antidoti a questa strumentalizzazione. Sarebbe facile se fosse proibito nel nome di qualche autorità superiore. Ma come si fa, quando il massimo che puoi imparare dalla tua tradizione è un suono inarticolato?
Però. Proseguiamo la discussione dello Zohar. Se Dio fosse nel silenzio prima di quel suono? Se Dio fosse nella possibilità? Nel silenzio che rende possibile sentire, e poi ascoltare, capire, distinguere? Se fosse, cioé, una condizione che rende possibili i discorsi, le interpretazioni, la vita? Qualcosa che sta alla realtà come le regole grammaticali stanno al linguaggio. O ancora prima.
A pensarci bene, non siamo in molti ad aver sentito parlare di Dio, perlomeno nella nostra educazione. Però sappiamo che siamo ebrei, di questo sentiamo parlare (oh, quanto!). Ci manca il linguaggio per collegare Dio a questo nostro essere ebrei. Ed è bene che il linguaggio non ci sia, perché quelli che parlano nel nome di Dio, oltre ad essere piuttosto pericolosi -specie di questi tempi, nella nostra tradizione sono diciamo impopolari. Noi sappiamo solo che Dio, in qualche modo, con noi c'entra. In un modo che non sappiamo bene quale è. Tipo un parente.
Ci sono sei parashot nella Torah nel cui titolo c'è un nome di persona. Tre di questi personaggi sono ebrei: Sara, Korach, Pinchas. Tre non sono ebrei: Noah, Ithrò, Balak. Di questi tre l'unico che ha una relazione specifica e positiva con il popolo ebraico è Ithrò. Nella parashà che porta il suo nome sono elencati i Dieci Comandamenti, che sono un po' il biglietto da visita con cui gli ebrei si presentano ai non ebrei, particolarmente a quelli monoteisti. Ma prima di quei Comandamenti, prima di quelle parole che sono anche fatti/cose (a voler tradurre accuratamente), prima c'è, appunto, il silenzio. Una condizione per poter sentire.
Io qui non sto proponendo di arrivare a Dio attraverso il silenzio. Dio è qualcosa di altro rispetto alla realtà in cui viviamo noi, che il silenzio lo riempiamo fino a cancellarlo. Non possiamo pensare di essere Dio. O di agire nel nome di Dio, come succede nei totalitarismi. Il silenzio, per me è una condizione. Una specie di berakhà, che si recita prima di compiere ogni azione. Più specificatamente, simile alla berakhà che pecede lo studio e chi ci impegna nel confronto con testi, linguaggi e tradizioni che non stanno nella nostra realtà, riempita di parole e di immagini.
1 commento:
Toda rabà. Molto interessante, mi ricordi un po' le lezioni del mio rabbino quand'ero ragazzina a Genova, allora non credo esistessero i riformisti, se fossere esistiti Rav Schaumann ne avrebbe senz'altro fatto parte.
Shavua tov.
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