fu lì che tutto cominciò...
Nell’ottobre 2002 la Associazione per l’Ebraismo Progressivo si presentò ufficialmente all’ebraismo italiano. Essendoci impossibile accedere ad altri organi (e ci abbiamo provato) abbiamo scelto di spedire una lettera ad Ha Keillah, con cui sentivamo una forte affinità. Ci piaceva la loro linea, secondo la quale l’Ebraismo non si esaurisce nella dimensione religiosa o nella halakhà. Inoltre Ha Keillah aveva in passato pubblicato i primi appelli al pluralismo, in favore di una presenza non ortodossa nell’Ebraismo italiano. Pensavamo, insomma, al “beginning of a beautiful friendship”. La lettera la ho scritta io, la riscriverei ancora ed infatti eccola qui
La risposta della redazione è un raro esempio di provincialismo e di ottusità: il movimento Reform non distingue tra parola e spirito, ma anzi sostiene proprio il diritto di ciascun ebreo di misurarsi e di crescere assieme all’Ebraismo stesso, ed è per molti l’unico modo di essere contati a minyan; la lettera non menzionava alcuna divisione tra ebrei “religiosi” e “laici” e così via. Con una punta di spocchia, l’anonimo redattore ci invitava, senza troppe perifrasi, a entrare nell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, “perché il popolo ebraico è uno”, invitando, se proprio lo volevamo, a “Studiare le strutture del potere, suscitare il consenso (…). Ma dal di dentro”.
Eravamo nel 2002. L’Ebraismo progressivo in Italia era un fenomeno recente e si andava formando una propria identità: c’era stata poco prima la scissione del gruppo Beth Shalom, -che fondò la propria Congregazione giusto in quel periodo- si tenevano serrate discussioni su questioni come il livello di kasherut da osservare, su patri- e matri-linearità, su quali melodie seguire per cantare, e a quali apuntamenti internazionali era meglio essere presenti. La suggestione ortodossa era molto forte, soprattutto per chi sentiva di compiere un tradimento dando vita in Italia a una sinagoga sottratta alla tutela dei rabbini italiani. Queste discussioni non sono terminate, però le Congregazioni italiane (Lev Chadash inclusa) hanno sviluppato una propria linea di condotta. Esiste, nei fatti, un minhag progressivo italiano, adottato da tutte le Congregazioni, ciascuna con le sue varianti locali. Ma nel 2002 tutto questo era appena agli inizi. E ancora si stava discutendo su quale fosse il modo migliore per rapportarsi con l'UCEI e con lo Stato italiano.
Per conto mio, ribadisco che la scelta migliore era (ed è) quella di consolidarsi, crescere, mettere radici e confidare che si trovi un accordo, se le istituzioni dell'ebraismo italiano saranno guidate da persone intelligenti. Non importa se ci vorranno anni, o forse decenni. Abbiamo ragioni sufficientemente forti per durare. Ma questo è un discorso politico. Altri invece si pongono i problemi di identità.
Una parte degli ebrei progressivi italiani ha infatti iniziato infatti a bussare in tutti i modi alle porte dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, nel tentativo non di farsi ammettere (che per l’UCEI sarebbe come minimo un dovere, se dovesse tener fede al proprio statuto) ma di farsi riconoscere come ebrei. Capita quindi che le candele del venerdì sera siano accese alla stessa ora in cui le accendono gli ortodossi, capita che si accenni alla possibilità di ri-introdurre la separazione tra uomini e donne durante il culto, capita anche che si celebri il secondo giorno di festa.
L'obiettivo è quello di realizzare una sinagoga in cui si mimano il più possibile le pratiche ortodosse, magari per placare i bisogni di identità (con cui, peraltro, fa i conti ogni ebreo) e sperando di ottenere il placet dei rabbini o perlomeno della dirigenza delle Comunità. Nei sogni di chi inizia Shabbat a metà pomeriggio ("proprio come fanno gli ortodossi") c'è un rabbino che ti assicura il certificato di ebraicità e un presidente di Comunità che ti ammette nella sua cerchia perché colpito dallo zelo con cui segui le mitzwot. Sono sogni irrealistici, data la svolta in senso integralista che sta pervadendo le Comunità: ma il contatto con la realtà è accuratamente evitato e ci si dice che se non si viene accettati è perché si è ancora troppo poco ortodossi. E allora iniziamo Shabbat un po' prima, e mettiamo l'obbligo di portare solo cibo kasher, e mettiamo il timer nella sinagoga per non accendere inavvertitamente la luce di Shabbat. Un percorso fatto di frustrazioni, lungo il quale si perdono le ragioni dell'Ebraismo progressivo.
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