martedì, maggio 01, 2007

l'ebreo virtuale

Poniamo che tu non sei ebreo (vabbé, succede, no?) e che decidi di avvicinarti all’Ebraismo per qualche ragione. Possono essere le più diverse: ti identifichi con le vittorie dell’esercito israeliano, ti piace Elie Wiesel, ti sei fidanzato con una ragazza ebrea conosciuta in Brasile, ti sei convinto che solo mettendoti da un punto di vista ebraico riesci a comprendere Woody Allen e/o Spinoza, non riesci a immaginare nulla di più atroce della Shoah (diciamo che solo qui mi sentirei di darti ragione) e ritieni che se qualcuno ha deciso di perseguitare così tanto gli ebrei questo si deve in qualche modo a loro (ecco, non siamo più d’accordo). OK, poniamo che le cose siano così; siccome l’Ebraismo è una specie di elastico che più cerchi di allontanartene, più ti risbatte al centro di sé (o in direzione opposta), viene il momento in cui qualcuno, ebreo o non-ebreo non importa, ti chiede se sei ebreo.
E tu, come Leonard Zelig, rispondi sì. Solo che non si tratta di aver letto o meno il Moby Dick. Quando si dice una roba (meglio: una palla) di questo tipo, si inaugura una nuova condizione esistenziale: l’ebreo virtuale. Quello che ce la mette tutta per convincere il mondo intero, incluso sé stesso, della propria origine ebraica: spesso collocata da qualche parte nella cosmologia di cui sopra. Tipicamente, se non è possibile che si tratti di un ghetto polacco, si cerca un ghetto italiano. E via con l’invenzione degli antenati.
Quando il percorso dell’ebreo virtuale incrocia quello delle sinagoghe Reform non dà quasi mai luogo a una unione di lunga durata. L’ebreo virtuale è alla ricerca di autenticità, di origine, di integrità, di identità forti, da esibire. Le comunità Reform sono spesso luoghi di dibattito aperto e feroce, dove capita di mettersi in gioco in maniera profonda.
Ma a volte, per qualche ragione misteriosa, l’ebreo virtuale decide di rimanere, prima o poi anche qui qualcuno gli chiede se è ebreo e a questo punto i casi sono due. O l’ebreo virtuale prosegue a raccontare palle -perché questo ambiente di dementi non merita che lui dica la verità, oppure perché la sua reale identità è qualcosa di cui si vergogna. Oppure decide di convertirsi, “che tanto i Reform convertono tutti” - così gli ha detto l’immancabile amico ortodosso. A questo punto la palla è, per così dire, nel campo della comunità: laddove esiste una forte identità collettiva il percorso di conversione è anche un modo di aumentare la auto-stima di chi passa da uno stadio virtuale a uno stadio reale. Lo ho visto accadere diverse volte.
Ma se la comunità si auto-considera una versione alleggerita dell’ortodossia il percorso diventa contorto e, soprattutto, non porta da alcuna parte. Ebreo virtuale e comunità condividono la cosmologia di cui sopra, in cui il vero e integrale ebraismo (il centro) è quello degli ortodossi. E sia l’ebreo virtuale che la comunità sono in cerca di approvazione da parte dei rabbini ortodossi, che diventano una specie di Super-Ego, con cui non si ha alcun contatto reale e continuativo – il più delle volte un rabbino ortodosso non entra nemmeno in una sinagoga Reform; certo non per tre Shabbat consecutivi. Prendono così piede posizioni del tipo: questa sinagoga deve essere accogliente per tutti. Sottinteso: per tutti gli ortodossi, gli ebrei veri, che prima o poi giungeranno. Quindi dobbiamo aumentare il livello di kasherut, quindi dobbiamo introdurre una qualche forma di separazione tra uomnini e donne, quindi dobbiamo considerare ebreo chi è di madre ebrea, quindi dobbiamo limitare le conversioni. Questo lo ho visto accadere una volta sola; e spero di non vederlo più.

Nessun commento: