martedì, gennaio 29, 2008

ebrei virtuali

Da almeno una decina di anni l’Europa si è popolata di ebrei virtuali: persone che non sono ebrei, spesso non hanno alcun legame con la vita ebraica, ma sono frenetici consumatori e spesso capaci produttori di cultura ebraica. Comprano libri di argomento ebraico, partecipano a festival di cultura ebraica, visitano mostre sull’ebraismo e musei ebraici, spesso suonano musica di cui sottolineano orgogliosamente le influenze ebraiche. La cultura ebraica (o meglio, ciò che è percepito come ebraico) ha ora un posto di rilievo nel teatro, nella musica e negli spazi urbani dell’Europa: si restaurano quartieri, si aprono musei, anche in località in cui gli ebrei sono assenti da secoli. E’ diventato “normale” essere ebrei in Europa.
Ruth Ellen Gruber descrive questo interesse per la cultura e la storia degli ebrei (al cui interno si inserisce anche la Giornata della Memoria, decisa dal Parlamento Europeo nel gennaio 2000) ed offre sue interpretazioni. Secondo lei molto è dovuto ad un mutato atteggiamento della Chiesa cattolica, che ha posto termine ad una ostilità millenaria; alla fine della Guerra Fredda, durante la quale le classi colte erano quantomeno diffidenti verso l’ebraismo; e soprattutto al desiderio degli europei di riempire quello “spazio ebraico” delle proprie identità nazionali . Il fenomeno ovviamente riguarda anche l’Italia dove, secondo l’autrice di questo libro, si deve soprattutto di Moni Ovadia e Claudio Magris, figure guida di una scoperta della cultura yddish – significativamente, nessuno dei due è ebreo ashkenazita.
L’opinione della Gruber è che questa ondata di interesse per la cultura ebraica sia sostanzialmente positiva, anche se ha dei lati kitsch (caffé ebraici in Polonia dove il cibo servito non è né kasher né cucinato secondo ricette tradizionali ebraiche), anche se non è rara la semplificazione. Gli europei adesso ne sanno molto di più sull’ebraismo e gli ebrei. La responsabilità delle istituzioni ebraiche deve essere quella di presentare la loro vita e cultura in luce meno folklorica. E in questo modo gli ebrei possono contriibuire alla costruzione di una Europa multiculturale.
La Gruber mi convince sì e no. Sì perché ha scritto questo libro percorrendo gran parte d’Europa e descrive un fenomeno che ha toccato con mano. No, perché sono più diffidente di lei a proposito della riduzione a folklore. In tutto questo fiorire di cultura ebraica, io vedo molta gente alla ricerca dell’Altro, o della Alterità. E mi sembra di indovinare molta delusione quando si scopre che “gli ebrei sono come noi” – se non sono così diversi, sembra essere il sottinteso, perché occuparsene? Perché una Giornata della Cultura ebraica, se non ci si può ascoltare musica klezmer?
Hai voglia quindi a spiegare che ci sono angoli di mondo in cui gli ebrei non hanno mai ascoltato musica klezmer. Hai voglia a parlare dell’Amsterdam di Spinoza, dove gli europei hanno scoperto non gli ebrei ma la tolleranza, che pure dovrebbe essere uno dei valori fondanti di questa Europa unita – salta sempre fuori quello che ti deve raccontare la favola di Spinoza perseguitato dall’Inquisizione ebraica (per la cronaca, chi è andato a leggersi e carte d’archivio ha scoperto che le cose erano molto più banali). Perché, visto che ad Amsterdam gli ebrei non erano straccioni e sognatori come nella Belz visitata da Joseph Roth, allora erano poco ebraici, e quindi cattivi e intolleranti. Proprio come noi.

Ruth Ellen Gruber, Virtually Jewish: Reinventing Jewish Culture in Europe, niversity of California Press, 2002.

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