venerdì, maggio 02, 2008

appartenenze uno

Mi dice una signora, di quelle che forse siamo parenti: "Sono arrivata qui nel 1950, assieme alla mia mamma, ero così piccola, sette anni, sono cresciuta qui e non sono mai salita su un aereo perché sono pahadosa [paurosa, in dialetto giudeo-livornese], non ho più visto l'Italia ma mi sento italiana, non c'è niente da fare, ma ala'assot".
Quando faccio la spesa provo il mio ebraico. Devo avere un accento sudamericano, mi prendono per argentino o brasiliano. Ultimamente anche per americano, sarà per via dei miei compagni di scuola che mi hanno passato qualche erre arrotolata. Tocca sempre a me dire: lo, anì meItalia, no, vengo dall'Italia. Non ci sono molti italiani qui.
Arabi o ebrei, che in questa città a volte distingui solo perché i secondi portano la kippà, ti scodellano allora i soliti luoghi comuni: calcio, pasta. Qualcuno ride e dice Berlusconi, proprio come in Grecia ridevano e dicevano Andreotti - era il periodo che Andreotti era sotto processo e la Grecia aveava cercato di uscire da una sua Tangentopoli con un governo composto da conservatori e comunisti. Chi è cresciuto in Russia ride aggiungendo che il nostro Partito Comunista non era niente di serio, comunisti che amavano il vino e rispettavano le chiese.
Anche se i quotidiani raccontano di bandiere bruciate, c'è l'idea che l'Italia sia un Paese genericamente amichevole, al limite, mi dice un amico impegnato per i diritti dei gay, "un po' conservatore". Io non ho mai sentito un conflitto tra i due passaporti che adesso ho in tasca. Anche se non sono affatto sicuro che l'Italia sia un Paese amichevole con gli ebrei. Imbecilli antisemiti ce ne sono, là - anche se non tutti arrivano a bruciare bandiere.
Ieri Gerusalemme si è fermata per due lunghissimi minuti - nell'elenco dei nomi che abbiamo letto c'era anche qualche nome italiano. E la cerimonia è finita cantando Ha Tikwa, l'inno di Israele. Una specie di cenno a Yom ha Atzmaut, il Giorno dell'Indipendenza, che nel calendario di Israele segue Yom ha Shoa. Israele come risposta ebraica alla catastrofe, rifugio dalla persecuzioni, in una parola -appunto- Tikwa, speranza.
Il che comporta qualche problema. Cito la mia amica Dena: Israele, il sionismo, mira ad annullare la Diaspora. Un israeliano dovrebbe guardare alla civiltà della Diaspora nello stesso modo in cui gli egiziani di oggi, musulmani, guardano alle piramidi. Relitti di un passato splendido e chiuso.
Però non è andata così: ebrei e israeliani hanno in comune una stessa religione, un calendario e un linguaggio - il che non vuol dire che tutti gli ebrei sappiano leggere un quotidiano israeliano, ma riconoscere la data, quello sì. E riconoscere una data vuol dire collocare sé stessi nel tempo, sincronizzarsi.
Insomma: il sionismo non è riuscito a sostituirsi, come religione civica, con i propri riti e il proprio calendario, alla religione ebraica. Ha solo creata un altra interpretazione degli stessi testi, a volte un po' più povera e divenuta rapidamente datata, come le haggadot filo-sovietiche della Hashomer Hatzair, sulle quali i miei amici russi si fanno della gran risate, ormai più nemmeno tanto amare.

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