davening at night
A grande richiesta, ecco a voi le Sephardi selichot FAQ
Come funziona?
Le selichot sefardite durano quaranta giorni, o per meglio dire: notti (quelle ashenazite meno, di solito una settimana). Si inizia il primo di Elul e si va avanti fino a Kippur. Il numero di quaranta giorni rimanda al numero di anni passati da Mosé nel deserto. Le uniche notti in cui non ci sono le selichot sono quelle di Shabbat.
In pratica?
In pratica mi alzo alle 3.50, mi cambio, scendo le scale, entro nella sinagoga sefardita (kurdi-iracheni-persiani) alle 4.00 circa, saluto i signori coi baffi e faccio davening (slang americano per preghiera ebraica) con loro fino alle 5.00, poi me ne torno a letto. Di solito mi offrono un té. Qualcuno fa come me, altri restano per Shachrit.
C'è tanta gente?
C'è il minyan, e anzi più del minyan, tutte le notti. L'età media è sui 45-50 ma ci sono anche persone più giovani.
E le donne?
C'è una ezrat nashim, che è praticamente una stanza sul lato ovest della sinagoga, con una grande finestra. E' una sinagoga ortodossa, ma non c'è la grata che impedisce alle donne di vedere e di partecipare. Devo effettivamente dire che le donne vedono gli uomini, noi non vediamo loro. E' indubbiamente una discriminazione, ma attutita dallo stile sefardita, che non è severo.
Ma non ci sono sinagoghe reform che fanno le selichot?
I reform di solito seguono il rito ashkenazi.
Perché?
Perché cosa?
Perché lo fai?
La domanda corretta sarebbe: perché lo facciamo, io e mia moglie. La risposta è che le selichot sono un modo di prepararsi ai Moadim e questo è il primo anno che per i Moadim siamo a Gerusalemme.
Hai mai fatto le selichot prima?
Sì, una sola volta. Non è stata una bella esperienza. Eravamo due o tre giovani, in un periodo della mia vita (e delle nostre vite) in cui cercavamo di decidere cosa farcene dell'Ebraismo e passavamo un sacco di tempo a discutere di Benjamin e di Primo Levi. Intellettualini un poco spocchiosi, quindi decisamente degli outsiders rispetto alle persone della comunità, in massima parte anziani ospiti di una casa di riposo, che si sentivano imbarazzati per la nostra presenza e hanno continuato a parlare di pensione e di malanni. Sospetto che se li avessimo sentiti parlare di politica ci saremmo sentiti imbarazzati noi.
Che si dice?
La struttura del servizio è la seguente:
Chi lo dice?
Il cantore o singoli fedeli dicono o, più spesso, cantano, una frase alla volta, e di solito l'assemblea dice quella successiva e poi di nuovo il cantore o uno dei fedeli. Per i primi dieci minuti è soprattutto il cantore. Più ci si avvicina al momento del suono dello shofar, più aumenta la parte cantata dall'assemblea. Il ritmo si fa serrato ed è quasi una marcia. La melodia è generalmente quella di un lamento - c'è anche chi scoppia a piangere. La scala cromatica è quella araba (dice uno che ci capisce) e l'effetto è che tra tappeti e suoni a volte ti chiedi se qualcuno, là fuori, pensa che è una moschea
Sembra una roba tristissima.
Non è vero. Perché il tono generale delle selichot è la certezza che il perdono c'è. E anche perché, come avevo già notato il rapporto degli abitanti di Gerusalemme con la religione è questione di tempi e non di spazio (e se c'è un tempo per la tristezza, ce ne è anche uno per tutto il resto). Qui i riti religiosi fanno parte della vita sociale. La ritualità ebraica ha sempre un che di anarchico, non c'è mai un officiante perpetuo ed ha molto in comune con la socialità mediterranea. Fuori dall'antropologia, le cose funzionano così: uno si vede con gli amici, va a fare minian -uniformandosi ai sentimenti d'obbligo- e poi riprende a chiaccherare con gli amici. Vale anche, e soprattutto, per gli adolescenti, la cui educazione ebraica prevede di avere amici ebrei e di incontrarli nei tempi stabiliti dalla religione ebraica.
OK, ma perché lo fai?
Succede una cosa strana: svegliarsi nel cuore della notte per ripetere assieme ad altri uomini le stesse parole, le rende più forti. Senti che quelle parole hanno un suono interiore. Ci si confronta con una Alterità, impossibile da rinchiudere nel pensiero umano, impossibile da definire con le parole. Ti passano davanti i volti, i pensieri, le impressioni, persino gli odori degli ultimi mesi, hai la sensazione che non sei il solo ad averlo vissuto e che se qualcosa hai sbagliato lo puoi riconsiderare.
Non sempre succede, a volte il pensiero vaga in quella zona indefinita compresa tra la politica mediorientale e il tuo conto in banca. Ma la coralità ti riconduce a te stesso e ti spinge ad uscirne, alla ricerca dell'Altro. Alla ricerca di Dio? Forse. Io ancora devo capire se ci credo; o devo credere che ci capisco abbastanza per prendere una posizione sulle Sue responsabilità. Certo alla ricerca degli altri esseri umani, creati a Sua immagine - e quindi meritevoli dello stesso rispetto, come insegna la nostra Tradizione.
E in quella sinagoga, poco prima dell'alba, assieme a quegli ebrei orientali in preghiera, sento davvero nostra, anche mia, quella Tradizione. Melodie e parole che stavano da qualche parte nel cervello e, non so come, mi sembra di aver conosciuto da sempre.
Come funziona?
Le selichot sefardite durano quaranta giorni, o per meglio dire: notti (quelle ashenazite meno, di solito una settimana). Si inizia il primo di Elul e si va avanti fino a Kippur. Il numero di quaranta giorni rimanda al numero di anni passati da Mosé nel deserto. Le uniche notti in cui non ci sono le selichot sono quelle di Shabbat.
In pratica?
In pratica mi alzo alle 3.50, mi cambio, scendo le scale, entro nella sinagoga sefardita (kurdi-iracheni-persiani) alle 4.00 circa, saluto i signori coi baffi e faccio davening (slang americano per preghiera ebraica) con loro fino alle 5.00, poi me ne torno a letto. Di solito mi offrono un té. Qualcuno fa come me, altri restano per Shachrit.
C'è tanta gente?
C'è il minyan, e anzi più del minyan, tutte le notti. L'età media è sui 45-50 ma ci sono anche persone più giovani.
E le donne?
C'è una ezrat nashim, che è praticamente una stanza sul lato ovest della sinagoga, con una grande finestra. E' una sinagoga ortodossa, ma non c'è la grata che impedisce alle donne di vedere e di partecipare. Devo effettivamente dire che le donne vedono gli uomini, noi non vediamo loro. E' indubbiamente una discriminazione, ma attutita dallo stile sefardita, che non è severo.
Ma non ci sono sinagoghe reform che fanno le selichot?
I reform di solito seguono il rito ashkenazi.
Perché?
Perché cosa?
Perché lo fai?
La domanda corretta sarebbe: perché lo facciamo, io e mia moglie. La risposta è che le selichot sono un modo di prepararsi ai Moadim e questo è il primo anno che per i Moadim siamo a Gerusalemme.
Hai mai fatto le selichot prima?
Sì, una sola volta. Non è stata una bella esperienza. Eravamo due o tre giovani, in un periodo della mia vita (e delle nostre vite) in cui cercavamo di decidere cosa farcene dell'Ebraismo e passavamo un sacco di tempo a discutere di Benjamin e di Primo Levi. Intellettualini un poco spocchiosi, quindi decisamente degli outsiders rispetto alle persone della comunità, in massima parte anziani ospiti di una casa di riposo, che si sentivano imbarazzati per la nostra presenza e hanno continuato a parlare di pensione e di malanni. Sospetto che se li avessimo sentiti parlare di politica ci saremmo sentiti imbarazzati noi.
Che si dice?
La struttura del servizio è la seguente:
- Salmi intoduttivi
- Recitazione dei Tredici attributi di Dio (Esodo 5:6-7), preceduta da pyutim (3 volte)
- Confessioni dei peccati, p. es. Anenan; o altre in ordine alfabetico e in prima persona plurale. ashamnu, bagadnu... Come a Kippur, esatto. E per la stessa ragione: dichiariamo di essere tutti colpevoli, per levare dall'imbarazzo chi lo è davvero, che così può dichiararsi colpevole lui pure.
- Litanie conclusive (p. es. Avinu malkenu)
- Kaddish
- Suono dello Shofar
Chi lo dice?
Il cantore o singoli fedeli dicono o, più spesso, cantano, una frase alla volta, e di solito l'assemblea dice quella successiva e poi di nuovo il cantore o uno dei fedeli. Per i primi dieci minuti è soprattutto il cantore. Più ci si avvicina al momento del suono dello shofar, più aumenta la parte cantata dall'assemblea. Il ritmo si fa serrato ed è quasi una marcia. La melodia è generalmente quella di un lamento - c'è anche chi scoppia a piangere. La scala cromatica è quella araba (dice uno che ci capisce) e l'effetto è che tra tappeti e suoni a volte ti chiedi se qualcuno, là fuori, pensa che è una moschea
Sembra una roba tristissima.
Non è vero. Perché il tono generale delle selichot è la certezza che il perdono c'è. E anche perché, come avevo già notato il rapporto degli abitanti di Gerusalemme con la religione è questione di tempi e non di spazio (e se c'è un tempo per la tristezza, ce ne è anche uno per tutto il resto). Qui i riti religiosi fanno parte della vita sociale. La ritualità ebraica ha sempre un che di anarchico, non c'è mai un officiante perpetuo ed ha molto in comune con la socialità mediterranea. Fuori dall'antropologia, le cose funzionano così: uno si vede con gli amici, va a fare minian -uniformandosi ai sentimenti d'obbligo- e poi riprende a chiaccherare con gli amici. Vale anche, e soprattutto, per gli adolescenti, la cui educazione ebraica prevede di avere amici ebrei e di incontrarli nei tempi stabiliti dalla religione ebraica.
OK, ma perché lo fai?
Succede una cosa strana: svegliarsi nel cuore della notte per ripetere assieme ad altri uomini le stesse parole, le rende più forti. Senti che quelle parole hanno un suono interiore. Ci si confronta con una Alterità, impossibile da rinchiudere nel pensiero umano, impossibile da definire con le parole. Ti passano davanti i volti, i pensieri, le impressioni, persino gli odori degli ultimi mesi, hai la sensazione che non sei il solo ad averlo vissuto e che se qualcosa hai sbagliato lo puoi riconsiderare.
Non sempre succede, a volte il pensiero vaga in quella zona indefinita compresa tra la politica mediorientale e il tuo conto in banca. Ma la coralità ti riconduce a te stesso e ti spinge ad uscirne, alla ricerca dell'Altro. Alla ricerca di Dio? Forse. Io ancora devo capire se ci credo; o devo credere che ci capisco abbastanza per prendere una posizione sulle Sue responsabilità. Certo alla ricerca degli altri esseri umani, creati a Sua immagine - e quindi meritevoli dello stesso rispetto, come insegna la nostra Tradizione.
E in quella sinagoga, poco prima dell'alba, assieme a quegli ebrei orientali in preghiera, sento davvero nostra, anche mia, quella Tradizione. Melodie e parole che stavano da qualche parte nel cervello e, non so come, mi sembra di aver conosciuto da sempre.
3 commenti:
Confermo
Non è la scala che è araba, ma i melismi che sono calcati su quelli arabi (si intende per melismi le piccole ornamentazioni che si fanno su una nota).
Gli ashkenaziti non hanno nulla di simile, per quanto ho sempre sentito.
Questo signore è uno della sinagoga kurda-irakena?
Le selichot ashkenazite in effetti sono tutta un'altra roba. No, questo rabbino che canta una delle preghiere delle selichot con la melodia sefardi, non è irakeno.
Suppongo però che queste melodie siano patrimonio dei sefarditi originari dei paesi dell'area mediorientale e araba.
Il melisma di tipo arabo (che poi chiamare arabo è erroneo, perché non è preorgativa araba, appunto) è tipico di tutti i canti di quelle zone, anche di tradizione cristiana-mediorientale (ad esempio melchita. Leggo che ci sono 50.000 melchiti in IL, che non mi sembra poco).
Insomma, diciamo che si tratta di un "accento musicale" comune di quella zona.
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